DICEMBRE
28

Diario dal Consiglio del 28 dicembre 2023

Il giudice amministrativo esorbita mai dai suoi poteri?

Nel Plenum del 13 dicembre scorso si è discusso dell’opportunità di impugnare la sentenza del Consiglio di Stato n. 6668 del 7 luglio 2023 che ha annullato la delibera consiliare del 21 maggio 2020 con la quale era stato disposto, ai sensi dell’art. 2 del regio decreto n. 511 del 31 maggio 1946, il trasferimento di ufficio di un magistrato.

Detta delibera traeva origine dalla acquisizione agli atti del C.S.M. delle intercettazioni di conversazioni tra il magistrato trasferito e il dott. Palamara nel corso delle quali il primo aveva interloquito in ordine al procedimento per la nomina di un procuratore della Repubblica, aveva espresso valutazioni gravemente irrispettose nei confronti di colleghi e colleghe del proprio ufficio – sostenendo altresì la necessità di un loro  ridimensionamento (“deve prendere le botte sui denti” è la frase riservata ad una collega) – e, in aggiunta, aveva  prospettato al dott. Palamara l’opportunità che i futuri componenti di tale ufficio fossero selezionati in modo da escluderne gli appartenenti a un determinato gruppo associativo.

Secondo la delibera annullata dal giudice amministrativo, queste conversazioni avevano determinato un marcato e profondo turbamento e disagio tra i magistrati dell’ufficio in cui l’interlocutore di Palamara lavorava, deteriorando in maniera irrimediabile il rapporto fiduciario tra il medesimo e i colleghi.

Il Consiglio di Stato, riformando la decisione del TAR Lazio che aveva respinto il ricorso dell’interessato, ha annullato la delibera consiliare sull’assunto che le conversazioni avessero ad oggetto “questioni, in senso ampio, definibili di carattere sindacale” e che si sarebbe potuto “ragionevolmente ritenere” che i relativi contenuti non potessero rappresentare “elementi idonei a sorreggere la determinazione di incompatibilità”. In fatto, il Consiglio di Sato ha sostenuto che, se era vero che sei componenti dell’ufficio, rappresentativi di quasi un terzo del ruolo organico, avevano chiesto “una chiara presa di posizione dell’ufficio”, nessuno di loro, tuttavia, aveva affermato chiaramente che fosse venuto meno il rapporto di fiducia con il collega.

A nostro avviso questa sentenza del Consiglio di Stato andava impugnata davanti alla Corte di cassazione per eccesso di potere giurisdizionale, come sostenuto in prima commissione da Francesca (seguita dai consiglieri Miele, di Magistratura Democratica, ed Enrico Aimi, laico di centro-destra).

Tale pronuncia, infatti, ci sembra un plateale sconfinamento dai limiti della giurisdizione amministrativa in danno dell’Amministrazione, perché si sostanzia in un controllo non di legittimità, ma di merito. Il giudice amministrativo (di secondo grado) non si è limitato, infatti, a valutare la ragionevolezza della motivazione della delibera impugnata, ma ha sostituito il proprio apprezzamento dei fatti a quello del C.S.M.

Il tema è molto delicato e ha una importanza che trascende la vicenda (pur non irrilevante) che ha dato origine al contenzioso concluso con la sentenza del Consiglio di Stato. Si trattava di una occasione che avrebbe consentito alla Corte di cassazione di tracciare finalmente con nettezza i confini del sindacato che spetta al giudice amministrativo sugli atti del Consiglio e di chiarire – come efficacemente si legge nella proposta di impugnazione presentata da Francesca – “se compete all’Organo di autogoverno o compete al giudice amministrativo stabilire se la situazione in cui un terzo del ruolo di un ufficio si esprima nei termini sopra riportati giustifichi il trasferimento ex art. 2 Legge Guarentigie del magistrato che ha dato causa a tale situazione”.

La maggioranza del Plenum, con i voti dei consiglieri di MI e di Unicost, ha ritenuto di non impugnare detta sentenza.

La proposta di non impugnazione, per un verso, valorizza il parere dell’Ufficio studi del C.S.M., secondo cui il sindacato svolto nella sentenza del Consiglio di Stato  sarebbe “piuttosto articolato e qualificabile per la maggioranza quale vaglio di legittimità”; per altro verso, argomenta che l’intervenuta caducazione (per altra causa)  della delibera che aveva assegnato il magistrato de quo all’ufficio da cui era stato trasferito di ufficio avrebbe fatto venir meno l’interesse ad impugnare del C.S.M., posto che tale magistrato non potrebbe comunque tornare nell’ufficio da cui è stato trasferito di ufficio.

Sono argomenti che non ci persuadono. Non ci persuadono in diritto, perché il rilievo che alcune argomentazioni della sentenza in questione risultino riconducibili al paradigma  del sindacato di legittimità non esenta la sentenza stessa dalla censura per violazione dei limiti esterni della giurisdizione amministrativa in relazione alle argomentazioni (decisive ai fini dell’identificazione della ratio decidendi) che detti limiti hanno violato;  e perché il rilievo che sul piano amministrativo la materia del contendere sia cessata non elide l’interesse del C.S.M. ad annullare una sentenza dichiarativa dell’illegittimità di un atto consiliare, la cui efficacia di giudicato potrebbe essere invocata in sede risarcitoria.

Ma, soprattutto, non ci persuadono sul piano delle relazioni istituzionali. A nostro avviso, l’impugnativa di quella sentenza sarebbe stata doverosa per provocare il controllo della Cassazione sulla stessa; se poi la Cassazione avesse dichiarato inammissibile o rigettato il ricorso del C.S.M., ne avremmo preso atto; ma la non impugnativa ha privato la Cassazione della possibilità di pronunciarsi sul tema e il C.S.M. della possibilità di contestare in giudizio quella che a noi sembra indiscutibilmente una ingerenza del giudice amministrativo nel merito dell’esercizio dei poteri di autogoverno della magistratura

Francesca Abenavoli, Marcello Basilico, Maurizio Carbone, Geno Chiarelli, Antonello Cosentino, Tullio Morello

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