Va premesso che, da più di due anni, in conseguenza di un accordo in tal senso tra la Procura di Torino e le Forze dell’ordine, gli operanti che hanno effettuato l’arresto non sono citati per le udienze di giudizio direttissimo conseguenti all’arresto in flagranza in caso di presentazione dell’arrestato in udienza da parte del PM.
Si tratta di una scelta che tutti i componenti del gruppo considerano sbagliata, sia perché contraria al disposto normativo, sia perché la presenza degli operanti è spesso indispensabile per chiarire i profili oscuri o dubbi che emergono dal verbale di arresto e chiarire/confermare/smentire circostanze riferite dagli imputati nell’esame. Inoltre, l’assenza degli operanti può ostacolare una prassi virtuosa torinese, instaurata anche grazie al sistema di calendarizzazione con udienze dedicate alle direttissime e alla scelta della direttissima con presentazione del PM, secondo cui i processi per direttissima si concludono sempre o quasi sempre in unica udienza (la prima) e il termine a difesa è concesso ad horas, ovviamente se fondato sulla necessità di studiare gli atti e non su esigenze oggettivamente realizzabili solo attraverso un’attività che richiede un maggiore lasso temporale, come, ad esempio, la presentazione all’UEPE della richiesta di MAP o la richiesta di risarcire il danno (sempre che la stessa incida effettivamente sulla pena e non sia comunque recuperabile quale condizione cui subordinare la sospensione condizionale).
Si è evidenziato che la scelta tra giudizio direttissimo e convalida innanzi al GIP deve essere compiuta esclusivamente valutando quale rito sia più funzionale al caso oggetto del processo e non certo al fine di distribuire in modo numericamente equivalente tra GIP e dibattimento i procedimenti per gli arresti di giornata.
Il giudizio direttissimo, ad esempio, è intrinsecamente più adatto per alcune tipologie di reato riguardanti fatti di immediato accertamento che non richiedono particolari adempimenti istruttori (ad esempio: furti, spacci di minime quantità di stupefacenti che possano essere valutati di lieve entità senza bisogno di una perizia tossicologica, truffe bagatellari, resistenze a Pubblico Ufficiale). Per motivi simmetricamente opposti, invece, altre tipologie di reato rendono più opportuno l’invio per convalida al GIP (ad esempio: violazioni della legge in materia di stupefacenti per le quali sia necessaria una perizia tossicologica, atti persecutori, maltrattamenti in famiglia, lesioni personali, truffe complesse, fatti cui ne siano connessi altri oggetto di indagini protrattesi nel tempo).
A corollario di quanto appena indicato, è stato proposto il principio generale secondo cui devono essere mandati a giudizio per direttissima solo i processi che possono essere immediatamente definiti senza necessità di ulteriori approfondimenti istruttori di qualunque genere: si è ritenuto sia un valore, sia sotto il profilo organizzativo sia per rispettare la ratio della norma, che il processo per direttissima si chiuda in una unica udienza.
Ne consegue che non dovrebbero mai essere inviati a giudizio con rito direttissimo i casi che richiedono l’esame di molti testi o lo svolgimento di perizie. Non dovrebbero esserlo dunque: i processi a carico di minori presunti, per cui occorrono accertamenti sulla struttura fisica o sui documenti di identità prodotti; i processi relativi a falsità documentali che devono essere approfondite; i processi che vedano imputate persone con sofferenza psichica o persone di cui sia ragionevole sospettare l’infermità mentale anche in base alla sola condotta criminosa realizzata. Molti casi pratici sono emersi nel corso della discussione: quello di uno straniero che si ferma in mezzo alla via e colpisce con una mazza tutte le vetture in transito pronunciando frasi sconnesse; la resistenza posta in essere da una persona che stava tentando di suicidarsi; il furto posto in essere da un uomo che, dopo aver spaccato un vetro ed essere penetrato in un edificio, ne esce, cantando, in pigiama spingendo una carriola contenente un tostapane e giochi da bambino. Si è osservato, inoltre, che per gli stranieri, i problemi psichici spesso emergono proprio in occasione della commissione di reati.
Per quanto concerne la scelta tra rito direttissimo e convalida innanzi al GIP nei giorni festivi e nella giornata di sabato va precisato che nel Tribunale di Torino, con riferimento all’udienza del sabato mattina, non vi sono limiti al numero di giudizi direttissimi, mentre è previsto un limite di quattro processi per l’udienza del sabato pomeriggio. Questo perché, in caso di giudizio direttissimo è necessario tenere aperto al pubblico il Palazzo di Giustizia per consentire l’accesso a chi è interessato ad assistere al processo e, dopo le ore 18, tale accesso non è più possibile per l’assenza del personale di controllo. Per la medesima ragione i processi per direttissima non vengono celebrati la domenica mattina.
Su questo punto è stata avanzata la proposta di verificare la possibilità di una diversa organizzazione degli uffici giudiziari torinesi.
In relazione alla scelta tra giudizio direttissimo e convalida innanzi al GIP per i processi che devono essere trattati dal Tribunale in composizione collegiale si sono registrate opposte opinioni.
L’art. 558 cpp prevede che la presentazione dell’arrestato davanti al Giudice possa essere eseguita dal PM oppure direttamente dalla Polizia Giudiziaria che ha eseguito l’arresto (previa formulazione dell’imputazione da parte del PM). Sull’opportunità di scegliere l’una o l’altra opzione si sono registrate opinioni divergenti.
A favore della presentazione da parte del PM (introdotta normativamente proprio recependo una prassi instauratasi presso gli uffici giudiziari torinesi) militano le seguenti ragioni:
A favore della presentazione da parte della PG milita, invece, l’accorciamento dei tempi di mantenimento dell’arrestato nelle camere di sicurezza prima del processo.
Accade talvolta che la richiesta di convalida dell’arresto non sia accompagnata da una contestuale richiesta scritta di applicazione di misure cautelari. Si tratta di una prassi formalmente legittima, che può essere giustificata nel caso in cui il PM affermi di avere necessità di sentire l’arrestato in sede di udienza di convalida prima di determinarsi nella propria richiesta. Tuttavia, è evidente che tale prassi rischia di eludere la portata operativa del decreto di liberazione ai sensi dell’art. 121 disp. att. cpp (che riguarda proprio il caso in cui, sebbene sussistano tutti i presupposti necessari per procedere all’arresto, il PM non intende comunque chiedere l’applicazione della misura cautelare).
Si è discusso:
La risposta è stata positiva per i seguenti motivi:
La questione è più complessa, e particolarmente controversa, riguardo ad altre due domande:
Su questo non si è giunti a conclusioni unitarie e si sono registrate adesioni ad opzioni interpretative diverse.
Secondo alcuni, l’assenza dell’imputato in ogni fase del rito direttissimo (cioè sin dall’inizio del giudizio di convalida nel caso dell’art. 449 comma 1 e dell’art. 558 commi 1 e 4 cpp e all’inizio del giudizio direttissimo nel caso di cui all’art. 449 comma 4 e 558 comma 9 cpp) impedisce il radicamento del rito direttissimo perché mancherebbe del tutto la contestazione dell’accusa all’imputato, che sarebbe dunque giudicato senza mai essere stato messo a conoscenza delle imputazioni a lui mosse.
I fautori di tale soluzione sostengono che essa sarebbe imposta dal dato letterale. Si osserva che la lettura coordinata degli artt. 449 commi 1, 4, 5 e 450 commi 2 e 3 cpp rende evidente che l’unica ipotesi di citazione a comparire a giudizio direttissimo di imputato libero è prevista nel caso contemplato dall’art. 449 comma 5 cpp (ossia in caso di confessione). Nei casi previsti dall’art. 449 comma 1 cpp (arresto da convalidare) e dall’art. 449 comma 4 cpp, infatti, il codice di rito fa riferimento all’istituto della presentazione. Conseguentemente, in caso di arresto già convalidato senza applicazione di misura custodiale (custodia in carcere o arresti domiciliari) o nel caso in cui l’arrestato in flagranza non abbia potuto o voluto comparire all’udienza di convalida dell’arresto, sarebbe impossibile la celebrazione del giudizio direttissimo, anche perché, fuori dei casi di cui all’art. 450 comma 2 cpp “il pubblico ministero contesta l’imputazione all’imputato presente” (art. 451 comma 4 cpp).
In definitiva, secondo questa tesi, la presenza dell’imputato è elemento indefettibile per la formulazione dell’imputazione e la prosecuzione del rito direttissimo perché, in caso di sua assenza, mancando la contestazione dell’imputazione, sarebbe impedita la stessa instaurazione del rito direttissimo.
Secondo altri, il giudizio direttissimo deve ritenersi validamente instaurato anche in caso di assenza perché la scelta dell’imputato di non comparire a giudizio non può paralizzare il rito direttissimo.
Si osserva:
L’affermazione, in realtà, appare tautologica e lascia aperto il problema della mancanza di una valida chiamata in giudizio dell’imputato non presente fin dall’inizio, cioè al momento della convalida (in caso di giudizio direttissimo contestuale alla convalida) ovvero al momento dell'instaurazione del giudizio di merito (nel caso di giudizio direttissimo ai sensi dell’art. 449 comma 4 cpp). Si pone, cioè, il problema di “garantire” la contestazione, allorquando l’imputato non intenda comparire.
Si è discusso se il giudizio direttissimo di cui all’art. 449 comma 5 cpp sia legittimamente instaurato quando la citazione avviene per un’udienza non successiva al trentesimo giorno dall’iscrizione del nome dell’imputato nel registro delle notizie di reato, ma il decreto di citazione non è stato notificato, o non è stato rispettato il termine a comparire di tre giorni previsto dall’art. 450 comma 2 cpp.
In linea generale se la notifica del decreto di citazione a giudizio è tardiva, il giudice non deve restituire gli atti al PM, ma disporre la rinnovazione della notifica a una data d’udienza successiva, che consenta il rispetto del termine a comparire.
La questione di restituire gli atti al PM si pone, in questo caso specifico, perché nel giudizio direttissimo ai sensi dell’art. 449 comma 5 cpp il termine di trenta giorni è requisito per l’instaurazione legittima del rito, con la conseguenza che, depositando al ventinovesimo giorno nella cancelleria del giudice una richiesta di giudizio direttissimo per il giorno successivo (cioè il trentesimo) non notificata o comunque notificata in modo da non rispettare il termine dilatorio di tre giorni, il PM formalmente rispetta il termine di trenta giorni, ma in sostanza lo viola perché, in concreto, l’udienza di giudizio direttissimo non può svolgersi entro quel termine-presupposto.
In questo caso, se è possibile celebrare il giudizio direttissimo rinviando a un’udienza successiva a quella indicata nella citazione non notificata, ma sempre precedente allo spirare del termine di trenta giorni previsto dall’art. 449 comma 5 cpp, il giudice dispone la rinnovazione della notifica a quell’udienza (sempre entro il termine di 30 gg.) per la celebrazione del giudizio direttissimo.
Viceversa, nel caso in cui il Tribunale, rinnovando la notifica (omessa o anche semplicemente tardiva) del decreto di citazione, dovesse necessariamente celebrare il giudizio direttissimo a un’udienza successiva allo spirare del termine di trenta giorni previsto dall’art. 449 comma 5 cpp, con conseguente violazione di uno dei presupposti temporali del rito, si possono ipotizzare due soluzioni:
In assenza di pronunce in tema, per orientarsi nella scelta tra le due opzioni sopra indicate, può essere utile recuperare la giurisprudenza relativa all’individuazione del momento finale del termine di 48 ore stabilito nelle ipotesi di direttissima contestuale alla convalida: in relazione a quella situazione, infatti, la giurisprudenza, pur adottando un criterio assai ampio, ha escluso che il termine potesse ritenersi rispettato in caso di decisione assunta non entro la chiusura dell’udienza (anche se avvenuta dopo più di 48 ore) ma addirittura in un’udienza successiva.
Il reato di cui all’art. 73 comma 5 DPR 309/90 (condotte di lieve entità in tema di stupefacenti) è punito con la reclusione non superiore nel massimo a quattro anni, non consente, quindi, l’applicazione della misura cautelare della custodia in carcere. Spesso coloro che sono tratti in arresto per questo reato non possono essere sottoposti alla misura degli arresti domiciliari perché non dispongono di una abitazione. Più in generale, l’art. 275 comma 2-bis cpp esclude che possa essere applicata la custodia in carcere se il giudice ritiene che, all’esito del giudizio, la pena detentiva irrogata non sarà superiore a tre anni.
Ci si è chiesti se, in questi casi, possa avere concreta efficacia l’applicazione di misure cautelari non privative della libertà personale (come l’obbligo di presentazione alla Polizia Giudiziaria o il divieto di dimora in un determinato territorio).
Sul punto si sono registrate opinioni diverse:
Tutti hanno sottolineato la necessità di approfondire, sul piano giuridico, le conseguenze dei successivi comportamenti della persona sottoposta ad una di tali misure, sia in specifica violazione della misura, sia sintomatici di una generica violazione della ratio della misura, come nel caso di commissione di altri reati, pur nell’apparente rispetto della misura cautelare. Si è convenuto, quindi, sulla opportunità di verificare, sul piano pratico, quali conseguenze si verifichino in concreto in questi casi anche procedendo ad un rilevamento statistico delle violazioni e dei casi in cui ad esse consegue realmente un aggravamento.
In sintesi si è ritenuto: