Il processo penale

Il processo degli “ultimi” è un giusto processo?

di Lucia Vignale
giudice del Tribunale di Genova
Giudice monocratico e rito direttissimo. I processi di cui non si parla, gli unici che, nell’emergenza, si sono celebrati interamente da remoto

Tra i tanti problemi che la crisi sanitaria sta ponendo alla giustizia c’è quello del processo monocratico per direttissima conseguente ad arresto in flagranza: la Cenerentola del processo penale; il rito che, ogni mattina, nei Tribunali d’Italia, decide della vita di tanti “invisibili” arrestati nelle nostre città per piccolo spaccio, furti, resistenze a pubblico ufficiale, evasioni, risse, lesioni, danneggiamenti.

Ormai sono trent’anni che “faccio direttissime”. Con cadenza periodica, c’è una intera settimana in cui, ogni mattina, vedo sfilare davanti a me un’umanità disperata: tossicodipendenti, extracomunitari irregolari, uomini che si stanno riprendendo dalla sbornia, ladruncoli. Quasi tutti recidivi, quasi tutti senza stabile dimora.

Se il reato lo consente, il PM chiede la custodia in carcere e anche se la misura appare sproporzionata alla gravità del fatto (che è per lo più bagatellare), spesso la si deve applicare: come negare il concreto pericolo di reiterazione di reati della stessa specie se si ha di fronte un plurirecidivo senza “lecite fonti di reddito” (così recitano, nel loro freddo linguaggio, le nostre ordinanze). In alcuni casi – pochi – si possono applicare gli arresti domiciliari o misure meno afflittive. Raramente l’imputato è incensurato e può usufruire della condizionale.

Se l’arresto è convalidato la condanna è quasi certa perché si tratta di persone sorprese nella flagranza del reato: dai processi per direttissima provengono molti dei detenuti in attesa di giudizio che popolano le nostre carceri. Entrano, scontano in custodia cautelare tutta (o quasi tutta) la pena inflitta in primo grado (di solito di pochi mesi), escono e spesso, dopo poco tempo, vengono di nuovo arrestati.

I processi per direttissima sono una “ramazza”. Con le direttissime si ripuliscono (si cerca di farlo senza grande successo) le nostre città “spazzando via” tanti marginali: è il nostro lavoro, una delle sue tante facce.

La gran parte di noi lo considera un lavoro di poco rilievo perché si tratta di reati minori e di criminali minori. Sono processi che non danno notorietà, farli (e farli bene) non è un titolo, non è eroico, è solo quotidiana routine (per dirla come Guccini: una piccola storia ignobile che non vale due colonne sul giornale).

Infatti, i turni direttissime sono la prima cosa che, appena possibile, i giudici chiedono di non fare più. Infatti, i PM togati non se ne occupano: sì e no danno un’occhiata al fascicolo e scrivono il capo d’imputazione (qualche volta lasciano fare ai Vice Procuratori Onorari e si limitano a controllare e firmare).

Nessun PM togato viene mai ai processi per direttissima, eppure si decide della libertà personale e si controlla se la PG ha agito correttamente quando, di propria iniziativa, ne ha privato una persona. Spesso i PM togati indicano al Vice Procuratore delegato in udienza quale misura cautelare deve chiedere e lo fanno senza aver neppure visto e sentito l’arrestato, dunque senza sapere nulla delle sue condizioni di vita, dei motivi a delinquere, della concreta realtà di quell’essere umano.

Le direttissime sono tante e si devono fare in fretta, entro 48 ore dall’arresto.

Se l’imputato è straniero e non si trova l’interprete si prova a capirsi, perché un po’ d’italiano per sopravvivere tutti lo hanno imparato: dottoressa – dice la PG – non è vero che non capisce noi gli abbiamo parlato, ma capire un processo forse è una altra cosa… Gli interpreti non sono traduttori professionisti, ma connazionali. Per qualcuno fare l’interprete per le direttissime è un lavoro fisso, ogni mattina si presenta in udienza e consente al servizio di funzionare, ma anche per lui è routine: non traduce all’arrestato quello che succede (perché lo faccia bisogna dirglielo) e quando l’arrestato risponde parlando per dieci minuti in arabo sintetizza in tre parole quello che ha detto (come vorrei sapere l’arabo per capire da sola).

Il difensore è quasi sempre d’ufficio, spesso ha fretta, talvolta non chiede neppure di parlare col cliente e concorda il patteggiamento col PM prima ancora di aver sentito se l’arrestato ha da dire qualcosa a discarico.

È una catena di montaggio: avanti il prossimo. Così può succedere che la PG presenti al giudice un ragazzo pieno di lividi e il giudice non se ne accorga (Stefano Cucchi ce lo ricordiamo tutti).

Come dicevo, sono trent’anni che “faccio direttissime”: le facevo da PM nella Procura presso la Pretura e, se potevo, andavo in udienza (lo facevo sempre se la cosa non era chiara, e anche quando pensavo si dovesse chiedere la custodia in carcere); ho ripreso a farle da quando sono al dibattimento penale e non ho più smesso. Sono passati trent’anni eppure questi processi continuano a sembrarmi importanti. Continua a sembrarmi importante che l’arresto sia convalidato solo se era legittimo; che la misura cautelare non sia applicata se non è necessaria o la legge non la consente; che anche i disperati sorpresi a rubare, a vendere una dose, e anche gli ubriachi che hanno fatto resistenza o si sono azzuffati tra loro abbiano un processo giusto.

Anzi, mi sembra che sia più importante garantirlo a loro che agli altri. Per gli altri, a garantire il giusto processo ci sono i difensori, la stampa, l’opinione pubblica; per loro, nulla di tutto questo. Per questa umanità disperata, l’unica garanzia del giusto processo è il Giudice. Prima di lui non c’è il PM che (forse, ma non è certo) ha frettolosamente guardato gli atti e scritto un capo di imputazione e non è detto neppure che ci sia davvero un difensore (qualche cosa in proposito alle Camere Penali potremmo dirla).

Un processo di cui non si parla… e nella pandemia se ne è parlato ancor meno. Eppure è stato l’unico processo penale che per davvero si è fatto, quasi ovunque, da remoto.

Non è solo perché era indispensabile e non c’erano in concreto molti altri modi di farlo senza creare pericoli per la salute pubblica. Io non credo che sia solo per questo. È anche perché si tratta di reati minori e, soprattutto, di “imputati minori”.

Un mio amico avvocato, che difendeva in uno di questi processi un giovane senegalese arrestato, mi ha raccontato che il suo cliente era in Questura e l’interprete non era accanto a lui, ma in aula, e l’arrestato guardava spaesato lo schermo del computer su cui comparivano le facce del giudice, del PM e dell’interprete e non capiva nulla di quello che si stava dicendo. Mi ha detto che ha chiesto invano al giudice di far andare l’interprete in Questura. Mi ha detto che il giudice ha disposto la liberazione e rinviato il processo e poi tutti se ne sono andati e il povero arrestato è rimasto lì senza aver capito nulla, neanche la data di rinvio. Mi ha detto di aver cercato di avvertire il giudice che l’imputato non aveva capito e c’era ancora bisogno dell’interprete, ma di non esserci riuscito perché l’udienza era stata tolta, il giudice aveva chiuso “Teams” e chiuso la linea. Io gli ho risposto che lo strumento “Teams” è obiettivamente un problema, ma i processi li fanno le persone e anche a uno strumento inadeguato si può cercare di sopperire; ma lui ha ribattuto: “quando farete un processo su Teams per un colletto bianco vi crederò…” e io ho pensato che aveva ragione.

Certo, si può sopperire alle carenze tecnologiche, ma come potrà un extracomunitario che dice di comprendere l’italiano capire cosa gli dice un giudice che parla in un computer? come potrà farlo senza avere nemmeno l’aiuto del labiale perché il giudice ha la mascherina in faccia? E davvero va bene che l’arrestato sia interrogato mentre si trova in Questura (forse in manette perché “Teams” fa vedere solo le facce e non consente di controllare) circondato da coloro che hanno eseguito l’arresto e la cui ricostruzione dei fatti, magari, vorrebbe smentire? Ed è giusto che alcuni avvocati (quei penalisti che hanno preteso il consenso per poter discutere da remoto un processo) restino nel loro ufficio o si presentino in aula e non sentano il dovere morale di andare accanto al loro assistito mentre viene interrogato? E quando l’ufficiale di PG certifica che non ci sono stati problemi di collegamento e l’audio non è mai andato via, siamo proprio sicuri che sia stato attento e quello che certifica è vero?

Insomma: siamo proprio sicuri che i processi in cui PM e avvocato devono solo concludere (l’uno fare la requisitoria, l’altro l’arringa difensiva) e quelli in cui si deve sentire un ufficiale di PG che consulterà gli atti “in aiuto alla memoria” si debbano poter celebrare da remoto solo se le parti sono d’accordo (come la legge prevede) e i processi per direttissima, invece, si possano sempre celebrare da remoto? Gli avvocati penalisti sono proprio sicuri che lo stato di necessità conseguente alla crisi sanitaria non consenta di sacrificare il diritto al giusto processo nel primo caso, ma consenta di farlo nel secondo?

Scrivo per una pagina dedicata a “Emergenza sanitaria, crisi globale e nuove sfide”. Una pagina ricca di contributi e di proposte. Lo faccio perché, in questa pagina, del processo per direttissima si parla una sola volta, nel documento dedicato alla magistratura onoraria. Io non credo che sia un caso: è materia da VPO, se i Giudici Onorari di Tribunale potessero decidere della libertà personale diventerebbe materia da GOT.

Io mi chiedo se non sia giunta l’ora di ripensare il sistema. Mi chiedo se la magistratura non avrebbe il dovere di prestare un po’ più di attenzione a questo processo di cui non si parla.

A me pare che se ne dovrebbe parlare.

Dovremmo chiederci perché i PM trascurano il processo per direttissima e se è davvero soltanto per il troppo lavoro; perché la scarcerazione immediata (consentita al PM dall’art. 121 disp. att. cpp) è desueta nell’ordinario, ma è divenuta possibile nell’emergenza sanitaria e solo grazie ad essa; perché l’avvocatura si disinteressa di questo processo e non si preoccupa della formazione dei giovani avvocati cui spesso lo affida; perché le Camere Penali non ne parlano mai, perché non invocano anche qui, anche di fronte a imputati che non possono pagare, la sacralità del diritto di difesa.

Infine, dovremmo chiederci perché i problemi connessi alla celebrazione delle direttissime via “Teams” – che è iniziata a marzo e continuerà almeno fino al 31 luglio – non sono stati approfonditi, e perché le prassi virtuose elaborate dagli uffici in questi mesi (se ve ne sono) non sono state segnalate, divulgate e discusse.

Disattenzione, trascuratezza, abitudine? Tutti vizi a cui si può rimediare, ma occorre volerlo.