Intervento

Giuseppe Santalucia
Presidente ANM

Comincio con un azzardo: sarò breve.

Lo sarò perché, dalla relazione introduttiva di Eugenio Albamonte all’ultimo intervento, molte cose sono state dette e le condivido tutte. Quindi, non ripeterò cose già dette mirabilmente.

Questo congresso, bellissimo per contenuti e organizzazione – appena un ringraziamento ai colleghi palermitani bravissimi –, tematizza una questione di perenne attualità.

Il rapporto con la Politica, che oggi viene definito nel contesto del maggioritarismo.

Perenne attualità non significa che sia anomalo discuterne oggi.

Perché la democrazia vissuta, la democrazia praticata, ha bisogno di continui aggiornamenti. Dobbiamo riflettere sulle relazioni di potere tra i Poteri dello Stato, che hanno una fisiologica tensione tra loro.

Oggi diventa conflitto, ma la tensione tra il Potere esecutivo e il Potere giudiziario è una qualità della democrazia.

Alla indicazione dell’epoca del ‘maggioritarismo’ si potrebbe sostituire il riferimento all’epoca della accentuata diffidenza e della accentuata insofferenza nei confronti del giudiziario. E questa caratteristica non è soltanto della classe politica che oggi governa il Paese.

È la diffidenza nel legiferare troppo. Appena un cenno alla riforma Cartabia: qualcuno ha detto che quella riforma del codice di procedura penale contiene più parole dell’intero codice di procedura. In questo modo si manifesta la diffidenza, nei confronti dell’interprete, nei confronti di chi dovrà applicare quella legge.

Leggere la riforma Cartabia sul tema delle indagini preliminari è difficilissimo. Ho provato a studiarla, ma è veramente complicato, perché è intrisa di diffidenza per chi dovrà applicarla.

E poi c’è l’insofferenza nei confronti di una magistratura, che fa il suo dovere, che non partecipa dell’indirizzo politico del governo e, quindi, in questo senso non può cooperare con l’azione di Governo.

Per questa via si imposta una discussione di relazioni tra Poteri, che non è una discussione di potere.

Mi ha colpito l’intervento di ieri del vicepresidente del CSM: i magistrati giovani sentono parlare di potere.

Non sono d’accordo con parte del suo intervento. Si tratta di una discussione sulla relazione tra Poteri, che si iscrive in un ambito di spiccata attenzione al servizio.

Basta citare la bellissima tavola rotonda di ieri.

Discutiamo di relazioni di potere, perché abbiamo a cuore il servizio.

E sappiamo che se il nostro lavoro non si innesta in una relazione tra Poteri secondo un ben preciso ordine costituzionale e democratico, ogni prestazione di servizio, quale che sia l’impegno individuale, può essere del tutto insoddisfacente.

Non basta essere produttivi.

Bisogna essere produttivi con una qualità della giurisdizione all’altezza della nostra società.

E noi oggi ragioniamo di questo. Una parte importante dell’associazionismo giudiziario, Area democratica, si sta impegnando su questo importante terreno di riflessione, interpretando l’autentica vocazione dell’associazionismo.

Riprendo ancora le parole del vicepresidente Pinelli, che ieri si interrogava sull’assenza di spinta ideale che sembra affliggere le giovani magistratura. Cosa fare?

Io, per il vero, non credo che ci sia questa assenza di spinta ideale. L’intervento di Fabrizio Guercio è testimonianza inequivoca della grande idealità che anima i giovani magistrati.

Ma se anche fosse così – perché se il vicepresidente la registra io devo prenderne atto – credo che l’impegno associativo, del tipo di quello che oggi si manifesta in questo Congresso, sia la migliore risposta a quella sua domanda.

Ma a quella domanda io ne farei un’altra se fossi il vicepresidente del Consiglio superiore o occupassi uno scranno al Consiglio superiore della magistratura.

Perché la perdita di idealità?

Noi come associazione cerchiamo di dare una risposta, ma anche di interrogarci sulle cause.

E se ci si interroga si scopre che forse la legislazione dell’ultimo periodo – diciamo dai primi anni 2000, dalla riforma Castelli-Mastella fino all’ultima riforma Cartabia, spiace dirlo – ha accentuato i tratti impiegatizi del mestiere di magistrato, agendo sulla leva del disciplinare e rafforzando l’organizzazione burocratica della magistratura.

Non è forse quella la causa di quel depauperamento della spinta ideale? Vogliamo allora riscoprire l’idealità?

Dobbiamo pensare e lavorare per una magistratura che non possa fare a meno della sua autentica vocazione professionale.

Non dico volutamente che non possa fare a meno “della consapevolezza della politicità della giurisdizione” per non essere frainteso.

Ma la vocazione professionale della magistratura è un bene del servizio di cui bisogna aver cura.

I disegni di riforma costituzionale – aspettiamo tutti di poter leggere la bozza sul premierato –, e tra questi quelli sulla separazione delle carriere, sono una traduzione di questa idea del maggioritarismo.

Tento brevissimamente ad abbozzare un’analisi della situazione.

Una parte, un cofattore della tendenza al maggioritarismo, della pulsione a rafforzare l’Esecutivo è l’esperienza vissuta della debolezza della Politica.

Non parlo del ceto politico o solo del ceto politico che oggi governa il Paese.

C’è una crisi della Politica – lo sappiamo tutti – che è epocale, che attraversa tutti i Paesi del mondo occidentale, e quindi anche il nostro.

La percezione della debolezza spinge nella ricerca di soluzioni che possano riaffermare il primato della politica, a cui tutti noi teniamo.

La magistratura, al pari di tutte le altre Istituzioni dello Stato, ha a cuore il primato della politica.

Però sul punto bisogna intendersi: il primato della politica si realizza nella capacità di direzione intellettuale e morale della società.

È un primato di idee, non un primato che pretende l’impunità dal controllo di legalità. Su questo piano si è giocato un grandissimo equivoco negli anni passati.

Il primato della politica si esercita con la messa in campo di proposte che sappiano fronteggiare i conflitti e risolvere le contraddizioni sociali. Questo è il primato della politica.

Ad esso noi guardiamo con assoluto interesse.

La magistratura in questo non è un contropotere. Vorrebbe una Politica forte.

Quando la Politica – per ragioni a cui qui si può solo far cenno – perde questa capacità di visione del futuro non trova intorno a sé un’opinione pubblica con cui misurarsi, ma un pubblico – è stato acutamente detto da un filosofo della politica –.

E tutto si consuma in spazi ridottissimi.

C’è una strutturale instabilità.

Sono venuti meno i corpi intermedi, è venuta meno l’articolazione sul territorio delle strutture partitiche. I progetti politici, anche quando ci sono, fanno fatica ad essere elaborati sul territorio e, quindi, sono volubili, volatili.

In questo clima di instabilità l’intervento della giurisdizione, che non deve avere a cuore l’indirizzo politico, viene inteso come un’interferenza.

Anche l’iniziativa giudiziaria per un episodio che ha riguardato un sottosegretario è un’interferenza, un ostacolo, un impedimento.

C’è un fraintendimento di fondo.

Si cerca allora di recuperare stabilità e primato alla Politica la con disegni che rafforzano i Governi, con una semplificazione delle procedure decisionali.

Ma se si semplificano le procedure decisionali e le minoranze vengono escluse dal circuito della partecipazione decisionale, è logico e inevitabile che cerchino nelle aule di giustizia quella voce che non hanno avuto nella fase della formazione della volontà generale.

Quindi, i conflitti aumenteranno.

Un sistema maggioritario – che personalmente, per quel che vale, non mi piace –, deve pensare ad un rafforzamento degli organi di garanzia, non a un suo indebolimento.

Questa è la grande contraddizione di quell’ “ismo”, che segna già un’accezione negativa del maggioritario.

Qui si consuma la contraddizione che stiamo vivendo.

Cosa può fare la magistratura?

Ieri il vicepresidente – ritorno alla sua relazione – invitava la magistratura, l’associazionismo, ad aiutare la politica.

Se lo potessimo fare, lo faremmo di cuore.

Non abbiamo questa forza, né questa funzione.

Noi assistiamo a quanto accade, e non possiamo fare altro che approfondirne lo studio.

Anzi, noi come Istituzione giudiziaria partecipiamo della crisi della Politica, perché la crisi della Politica si traduce in crisi della legge e la crisi della legge è anche una crisi giudiziario.

Noi all’ art. 101 Cost. siamo fortemente affezionati.

Non abbiamo interesse ad una legge debole, perché la legge debole indebolisce l’argine che è tutela della nostra indipendenza e autonomia.

Sarebbe un bene che la soggezione soltanto alla legge fosse soggezione ad una legge forte, non certo ad una legge autoritaria, ma una legge forte, sì.

Quindi la crisi della politica è anche un nostro problema.

Non abbiamo gli strumenti per risolverlo, però possiamo trare qualche spunto di riflessione anche per il nostro specifico.

La crisi della Politica si rifrange anche come crisi dell’associazionismo.

Molte delle cause che hanno segnato la prima segnano la seconda. Noi cerchiamo di fare il nostro.

Cerchiamo, con il nostro impegno in Associazione di contrastare quelle cause profonde e oggi lo sta facendo mirabilmente Area democratica per la giustizia.

Siamo impegnati a riprendere una discussione, quanto più partecipata possibile, sul ruolo, sulla natura e sulla funzione della giurisdizione.

Mantenere ed accrescere nei magistrati la consapevolezza del ruolo è la nostra sfida, una battaglia culturale che consente di raggiungere risultati importanti, sempre nella prospettiva del servizio.

La crisi dell’associazionismo ci espone al pericolo della frammentazione, ma non la frammentazione tra i gruppi che si riconoscono nell’Associazione. Penso piuttosto alla frammentazione del giudiziario nei suoi molti mestieri.

Dobbiamo evitare di isolarci nelle esperienze professionali di cui si compone la nostra attività, a cominciare dalla grande distinzione tra legittimità e merito.

C’è una articolata e ricca mozione della sezione Area Cassazione a ricordarci l’essenzialità di un dialogo tra legittimità e merito: ma aggiungo, dobbiamo scongiurare il rischio di divisioni culturali tra giudicante e inquirente, tra giudicante civile e inquirente.

Se non mettiamo riparo alla crisi dell’associazionismo – io sono fiducioso, so anche che questa è una sfida che vinceremo – noi ci ritroveremo frammentati rispetto a programmi normativi di separazione.

L’unico grande modo per rispondere a chi vuole separare è recuperare, innanzitutto noi, il senso e il valore dell’unicità della giurisdizione. Che poi si articola e si declina in mille mestieri, ma che ha, anche tra inquirente e giudicante, un nucleo forte di valore che va preservato.

Le insofferenze della Politica, che poi sfociano in progetti di revisione costituzionale, contro una magistratura e una giurisdizione imprevedibile non vanno ignorate, rifiutate perché ingiustificate, e vanno anzi prese sul serio. Uso il termine “imprevedibile”, perché alla prevedibilità delle decisioni siamo stati richiamati dal Presidente della Repubblica.

Quindi, un problema c’è.

Come affrontarlo?

Certo, non rinunciando alle conquiste culturali sul terreno dell’interpretazione.

Antonello Cosentino ne ha fatto cenno: non possiamo ritornare alla prioritaria considerazione dell’intenzione del legislatore.

Noi però dobbiamo recuperare – se c’è in qualche momento qualche caduta – un’attenzione ancora più forte al testo della legge.

Essere capaci di rispettare fino in fondo il testo, e al contempo, e proprio per questo, essere costruttori e custodi di un sistema: è questa la stabilità e la prevedibilità che possiamo assicurare, non altro.

Non inseguire la contingente volontà del legislatore, ma essere costruttori e custodi di un sistema, perché lì si esprime un’esigenza di stabilità che noi avvertiamo, con consapevolezza democratica, quale risposta doverosa ai bisogni di una società complessa, attraversata da sentimenti di precarietà e di instabilità in tutte le sue categorie.

Su questo terreno c’è da lavorare culturalmente, e l’associazionismo giudiziario non farà mancare la sua opera.

Sul versante dell’azione penale e della giurisdizione penale – che poi è quello che hanno in mente molti politici quando parlano di giurisdizione tout court – il compito che ci spetta è di spiegare, con massima disponibilità al dialogo, le ragioni della contrarietà alla separazione delle carriere – ma qui è stato detto –, far comprendere il timore che ci si possa accostare ad una riforma costituzionale di questa portata con l’atteggiamento dell’apprendista stregone.

Magistratura giudicante e inquirente stanno nello stesso ordine, hanno un unico Consiglio superiore perché sono accomunate da un unico grande principio, che è il disinteresse per il risultato del processo.

Una magistratura inquirente che è disinteressata al risultato del processo, alla condanna, è una conquista di civiltà, che non è dismissione di responsabilità dagli obblighi di un esercizio professionale scrupoloso e attento, ma assicura, tutela e presidia i diritti di libertà e le garanzie degli individui.

Le due articolazioni della Magistratura sono dentro un unico ordine perché permeate entrambe dal disinteresse per l’esito del processo. Al di là di tutto quello che è stato già detto, a noi spetta di praticare questo disinteresse e di renderlo manifesto.

Non esiste in Italia una magistratura di scopo, per usare le parole della Corte costituzionale, e nemmeno la magistratura inquirente lo è e lo sarà. Dobbiamo dirlo ed essere coerenti nella prassi quotidiana.

Dobbiamo far capire che il coordinamento inquirente non è accentramento, perché la gerarchia non può convivere con la giurisdizione, né giudicante né inquirente.

Nei disegni di legge parlamentari sulla separazione delle carriere molto improvvidamente, e forse con un alto grado di inconsapevolezza, si abolisce il terzo comma dell’articolo 107 Cost., che diversifica i magistrati solo per funzioni.

Non so perché sia stata inserita l’abolizione di quella importantissima norma disposizione, perché nulla sul punto dicono le relazioni illustrative dei disegni di legge; eppure, si tratta del maggiore intervento demolitore del sistema costituzionale di garanzie.

Bisogna pensare, rimediando alle recenti distrazioni normative, ad una magistratura che non ha gerarchia.

Lo dobbiamo fare intanto noi.

Perché, badate, le riforme che non ci piacciono hanno più facile strada se ci trovano culturalmente impreparati.

Torno allora alla domanda che più volte ho richiamato: quale, in questo contesto, il compito dell’associazionismo giudiziario?

Semplice, seppure faticoso: fare cultura associativa.

Far comprendere ai colleghi che partecipare alla vita dell’Associazione è un pezzo importantissimo della loro professione. Non ci si chiude nelle stanze, negli uffici, a far sentenze, pensando di aver adempiuto, così, al nostro dovere.

Bisogna trovare il tempo, il modo – e in tanti riusciamo a farlo – di essere presenti nel dibattito associativo, perché la consapevolezza del ruolo e della collocazione della nostra funzione nella società, che in tal modo si acquisisce, si traduce nella qualità delle risposte di giustizia.

Se saremo capaci di fare questo – e io ne sono convinto – non ci fiaccheremo, per usare le parole di Giuseppe Cascini.

Queste riforme non ci fiaccheranno.

Troveremo con i comportamenti e con le parole la capacità di essere persuasivi, sperando che la Politica possa anche rivedere i suoi programmi di azione, che non sono immutabili, come fossero un testo sacro da custodire nel sancta sanctorum.

Ogni volta che mi confronto sul tema della separazione delle carriere i miei autorevoli interlocutori politici alla fine ricordano che quella riforma sta nel programma di governo, quasi a voler significare la sua ineluttabilità.

Sì, compone il programma di governo, ma questo non deve esimerci da un confronto intelligente, rispettoso, argomentato con la speranza che quel programma possa essere corretto.

 

Infine, sento di rivolgere un forte ringraziamento a Eugenio Albamonte, che lascia oggi la Segreteria di Area.

Lo ringrazio da iscritto per la intelligenza politica e, soprattutto, per la generosità con cui ha rappresentato la linea politica associativa del gruppo.

Lo ringrazio, ancora di più, per la sensibilità con cui ha saputo interloquire con noi di Area all’interno dell’Associazione Nazionale Magistrati, avendo sempre di mira l’importanza dell’unità dell’Associazione.

Grazie.

Trascrizione a cura della redazione,
rivista dal relatore.

Gli altri interventi

Saluti

Relazione introduttiva

Tavola rotonda:
I diritti sotto attacco

Dibattito congressuale