Rialziamo la testa e torniamo al nostro ruolo costituzionale

La relazione del segretario generale, Eugenio Albamonte, traccia il quadro dei temi di stringente attualità, nel perdurante momento critico per la magistratura, con un occhio particolare alle riforme e un invito ai magistrati a lavorare per il recupero della credibilità della funzione
Video estratto dalla diretta streaming realizzata da Radio radicale

Gli ultimi due anni hanno travolto la credibilità della magistratura in modo che sarebbe stato inimmaginabile in precedenza e, purtroppo, il terremoto che ci sta travolgendo non sembra arrestarsi.

Molti sono i fatti e le vicende che si sono susseguite. Tutte sono state determinate da una fortissima crisi etica che sta coinvolgendo una parte della magistratura che non è certamente maggioritaria ma è sicuramente molto estesa.

Le vicende dell’Hotel Champagne sono solo l’origine di questa lunga sequela di fatti, tutti riconducibili a comportamenti di gruppi e di singoli magistrati che evidenziano la perdita complessiva dei riferimenti etici e culturali che per anni hanno costituito il patrimonio comune di tutti noi e la principale barriera contro la deriva dei comportamenti individuali.

Mi riferisco, ovviamente ad alcuni gravi fatti di corruzione nell’esercizio delle funzioni, che ormai si ripetono con una costanza allarmante e che certamente segnalano una rapacità ed una avidità crescente all’interno della magistratura. Ma anche a condotte di scriteriata sovraesposizione mediatica che non è purtroppo limitata ai magistrati del pubblico ministero, fenomeno che continua a manifestarsi in modo preoccupante, ma in più occasioni, di recente, ha coinvolto colleghi con funzioni giudicanti, collocandosi in contrasto con la riservatezza che deve presidiare il relativo dovere di terzietà.

E mi riferisco, soprattutto, alla vicenda che sta interessando la Procura di Milano, dove un dissenso mal gestito, interno all’ufficio e relativo alla trattazione di un procedimento, ha dato luogo alla divulgazione di atti di indagine riservati, la cui pubblicazione sui giornali è avvenuta in questa settimana, senza che sia stato possibile per i cittadini comprendere se le gravi accuse in essi contenute, portatrici di incalcolabile pregiudizio per le persone coinvolte e destabilizzanti per la credibilità della magistratura e di altre istituzioni, siano accreditabili di qualche fondatezza.

Ma non bastavano i fatti, con la loro portata screditante, i cui effetti non coinvolgono solo i protagonisti ma l’intera magistratura. Ad essi sino sono aggiunte le narrazioni di essi, portate all’attenzione dell’opinione pubblica da alcuni dei protagonisti. Ciò è avvenuto con la recente pubblicazione di un libro e con le relative occasioni di presentazione mediatica che ne sono seguite e in modo diverso ma non meno dannoso con la vicenda milanese.

Anche qui abbiamo assistito ad una contrapposizione, anche molto dura, tra alcuni dei protagonisti, avvenuta attraverso interviste rese ai quotidiani e partecipazioni incrociate a trasmissioni televisive, utilizzate per affermare la propria ricostruzione dei fatti, per difendere la propria immagine e per attaccare gli avversari. Tutto ciò mentre ancora sono in corso sia le indagini preliminari, che coinvolgono diverse procure, sia gli accertamenti degli organi titolari dell’azione disciplinare. In una fase, quindi, nella quale, secondo il costume etico ormai infranto, massima sarebbe dovuta essere la riservatezza dei soggetti interessati.

E anche questi comportamenti scriteriati, che si aggiungono all’oggettiva gravità di alcune condotte, non sarebbero stati sufficienti a determinare lo sconquasso che stiamo vivendo. Infatti ad essi si sono aggiunti i resoconti e le narrazioni portate avanti dalle testate dei giornali e da alcuni programmi televisivi di informazione. Mi riferisco, in particolare a quelli che hanno sposato la posizioni degli uni o degli altri e apertamente parteggiano per essi offrendo anche un accesso privilegiato ai loro spazi ed alle loro pagine. Tutto ciò restituisce all’opinione pubblica, in modo amplificato dalla contrapposizione militante tra alcune testate, l’immagine di una magistratura in preda ad una guerra per bande nella quale la funzione giudiziaria e l’attività dell’autogoverno hanno perso ogni senso che non sai quella di contrastare l’avversario.

A questa confusione di voci si aggiunge poi la politica. Una sua parte consistente, animata da una ostilità legata a vicende giudiziarie vecchie nuove, contribuisce, con le sue generalizzazioni e con l’esasperazione delle posizioni critiche ad attribuire i comportamenti di alcuni all’intera magistratura ed in verità all’intero esercizio della giurisdizione, trovando riscontro a vecchi teoremi complottisti.

Altra parte della politica, pur conservando un atteggiamento più sereno e prudente, apparentemente attento a preservare la credibilità della funzione, non si dedica però ad analizzare le dinamiche sottese alle vicende emerse, ad individuarne le cause al fine di predisporre soluzioni di riforma adeguate.

L’effetto generale di questi due atteggiamenti sono alcune proposte di intervento riformatore che, esaminate in modo complessivo, quando non assumono un contenuto vistosamente punitivo e revanscista, come avviene per la campagna referendaria e per la proposta di separazione delle carriere, risultano comunque inefficaci alla soluzione dei problemi e contraddistinte dalla scarsa conoscenza della magistratura, come ad esempio per la proposta di riforma delle valutazioni di professionalità alla luce dei risultati finali ottenuti dall’azione giudiziaria.

All’interno della magistratura, una buona parte di noi acquisisce informazioni e si crea un proprio giudizio attingendo a fonti di informazione avvelenate e conseguentemente elabora soluzioni ipotetiche che sono anch’esse lontane dalla focalizzazione dei problemi di fondo, esemplificativa è la preferenza, espressa dal alcuni, per il sorteggio quale strumento di selezione della rappresentanza presso il CSM.

Nei dibattiti interni, a fianco di chi è profondamente indignato per il discredito che alcune vicende hanno arrecato e più in generale per le derive comportamentali inaccettabili, c’è anche una componente di noi che fatica ad abbandonare logiche di protezione clientelare e chi specula su alcune vicenda per tentare di ridefinire equilibri elettorali e di rappresentanza nei vari luoghi associativi e del governo autonomo, compiendo manovre che dimostrano la scarsa percezione della situazione di enorme perdita di credibilità e di prestigio nella quale siamo precipitati e il carattere, a questo punto esiziale, di ogni comportamento che rilanci conflittualità di potere interne alla magistratura.

Anche all’interno della magistratura, quindi, una confusione di voci dal segno più vario, la riproposizione di punti di vista mutuati dalla comunicazione e dalla politica senza una chiara percezione della strumentalità di alcune di esse, una giustapposizione di indignazione genuina al fianco di posizioni guidate dall’interesse, convivono con incrostazioni tutt’ora ancorate alle dinamiche di potere evidenziate dai fatti dell’Hotel Champagne e ad alcuni dei protagonisti di quella pagina oscura.

Nel frattempo coltiviamo un’assoluta diffidenza per i luoghi attraverso i quali, in modo orgoglioso, avevamo in passato esercitato i nostri diritti di rappresentanza, le nostre libertà di confronto e di espressione, le prerogative di governo autonomo: le correnti, l’associazionismo, il CSM. Una sorta di furore iconoclasta che però, come spesso accade in questi casi, non affianca al fervore distruttivo un altrettanto chiaro disegno del modello alternativo che dovrebbe essere perseguito.

Tutti a gran voce reclamiamo che tutto cambi, ma non tutti, in realtà, lo vogliamo né siamo consapevoli di cosa esattamente debba cambiare e come, affinché alcune dinamiche distruttive cessino e le devianze emerse non possano in futuro riproporsi.

È necessario allora fermarsi un attimo a svolgere una attenta attività di analisi di quanto accaduto prendendo in considerazione, a questo punto, non più tanto i fatti ed i loro protagonisti, quanto le dinamiche che li hanno generati, le cause remote e più prossime, i fattori acceleratori e la mancanza delle contro spinte di reazione, le buone intenzioni che hanno generato le peggiori pratiche. Perché una cosa a questo punto è certa ed è che i singoli fatti che sono accaduti sono manifestazione eclatante di una deriva culturale ed etica che si muove ad un livello sotterraneo, la cui portata è difficilmente definibile e quindi contrastabile e che interroga ogni magistrato di questo Paese e in qualche misura lo riguarda.

In questi anni abbiamo individuato alcune di queste cause nella riforma dell’ordinamento giudiziario del 2006 e prima ancora nella riforma del sistema elettorale del CSM avvenuta nel 2002. Ma probabilmente non sono state le riforme da sole, quanto l’impatto che le stesse hanno avuto sulla magistratura e sulla sua capacità di resistere alle lusinghe ed alla competitività di un sistema in precedenza estraneo ad ogni connotazione carrieristica.

È certamente vero che dal 2006 è stata introdotta la temporaneità degli incarichi direttivi e semidirettivi accompagnata dall’attribuzione al CSM di un potere discrezionale precedentemente sconosciuto in un sistema basato sul riconoscimento della cd “anzianità senza demerito”.

All’introduzione della temporaneità, che ha determinato l’immediata cessazione della maggior parte degli incarichi al momento assegnati, si è accompagnata quindi una valutazione degli aspiranti su base meritocratica basata su criteri ampi ed affidata ad un organo collegiale le cui determinazioni si fondano sulla regola della maggioranza. La mancanza di un substrato adeguato di valutazioni di professionalità degli aspiranti, accompagnata alla controvertibilità di ogni giudizio di preferenza fondato su basi talmente fragili, ha di fatto spostato una parte significativa delle decisioni consiliari dal piano della valutazione meritocratica a quello della contrapposizione delle forze in campo all’interno dell’organo di governo autonomo, consegnando molte nomine a logiche di alleanza, pressoché stabili tra componenti consiliari, che si sono cementate in base a logiche di mutualità o di scambio reciproco, quando non ad un’unanimità di convenienza, basate su una ampia programmazione delle nomine che avesse capacità di soddisfare le aspettative di tutti.

In questo quadro, una dose di clientelismo, che ha certamente caratterizzato alcuni gruppi associativi più di altri ma che altrettanto sicuramente ha riguardato tutti, è stata esaltata da una forte spinta alla gratificazione personale, proveniente dal corpo della magistratura e perseguita tramite l’accesso agli incarichi direttivi e alle funzioni più ambite e si è saldata con gli effetti perversi della modifica del sistema elettorale del CSM.

Un sistema maggioritario uninominale che riduce fatalmente la platea dei candidati e quindi la possibilità di scelta degli elettori e che rende quasi coincidente la candidatura con l’elezione, determina una forte concentrazione di potere nelle mani di chi è chiamato e indicare i candidati e stabilisce un rapporto di stretta dipendenza tra l’eletto ed il suo sponsor, incidendo fortemente sulla sua libertà da condizionamenti e da mandati più o meno occulti.

Ecco allora che le scelte consiliari vengono discusse ed assunte in luoghi diversi da quelli istituzionali e con la partecipazione di soggetti diversi ed ulteriori dai componenti del consiglio, coincidenti con i vari king maker che l’opacità delle regole di democrazia interna di alcune correnti ha consentito di allignare.

In questo contesto il corpo della magistratura assume un ruolo di compartecipe e al contempo di vittima. Compartecipe per la forte pressione che esercita sull’autogoverno per ottenere il riconoscimento delle proprie aspettative, così alimentando il circuito clientelare; vittima perché le scelte che in larga parte questo meccanismo perverso è destinato a prendere sono spesso deludenti e discriminatorie.

Se questo è il quadro, è necessario individuare quali siano le giuste leve per disarticolare questo circuito perverso. E spetta a noi interrogarci su quali siano le soluzioni più adatte: tornare ad un sistema burocratico che privilegi l’anzianità pur di ridurre il potere decisionale dell’autogoverno o mantenere un approccio meritocratico? E se questa è la scelta quali sono gli interventi che riducono la spinta alla carriera e rendono più trasparenti, affidabili e prevedibili le scelte consiliari?

Certamente è necessario pretendere che il legislatore metta mano al sistema elettorale del CSM prima del suo rinnovo, che comincia ad essere imminente. Se è vero che il sistema vigente è parte importante delle dinamiche che hanno determinato questa forte torsione è impensabile che tali dinamiche, ormai disvelate, si ripropongano nel prossimo Consiglio.

È in gioco la sorte stessa del governo autonomo della magistratura che, se rinnovato con le stesse dinamiche patologiche del passato, rischia di essere definitivamente travolto dalla sfiducia dei magistrati prima ancora che dell’opinione pubblica e delle altre istituzioni.

Un nuovo CSM, che fosse eletto con queste stesse regole, sarebbe per ciò solo delegittimato sin dal primo giorno agli occhi degli stessi magistrati e non potrebbe accadere nulla di peggio, per demolirne definitivamente la sua funzione di custode dell’autonomia ed indipendenza della magistratura. Funzione di cui abbiamo invece un disperato bisogno, tante e tali sono, ormai quasi ogni giorno, le pressioni che dal mondo esterno vorrebbero condizionarne proprio questa fondamentale prerogativa della giurisdizione.

Purtroppo l’enorme ritardo con il quale il Ministero della Giustizia sta mettendo mano alla materia non induce ottimismo pur a fronte di un buon lavoro effettuato dalla Commissione Luciani. Ne fa ben sperare il precedente al quale abbiamo assistito per la riforma del processo penale. Lì, infatti, hanno prevalso logiche politicistiche e di equilibri interni alla maggioranza di Governo a discapito della coerenza e razionalità complessiva della riforma. C’è da preoccuparsi che lo stesso, se non peggio, avvenga per le riforme che riguardano il CSM, dove, per quanto è stato già detto, sono molto forti le spinte demagogiche, la volontà malcelata di ridimensionare il ruolo costituzionale ed il livello istituzionale del Consiglio di alcune parti politiche che convivono con la scarsa lucidità di analisi e di coerente proposta che ne caratterizza altre.

Il tema delle riforme processuali viene poi in considerazione anche da un diverso punto di vista. Infatti la spinta alla carriera, all’incarico direttivo e semi direttivo, alle funzioni giudiziarie più ambite, agli incarichi fuori ruolo, sono tutte espressioni di una forte pulsione alla fuga dalla giurisdizione, che anima una parte consistente della magistratura. Questa trova causa proprio nel soverchiante carico di lavoro, nell’inefficienza complessiva del sistema, nella frustrazione determinata da un impatto sempre meno effettivo delle decisioni giurisdizionali. Tutto ciò crea prostrazione e genera la ricerca in altri luoghi delle gratificazioni che in passato venivano ritrovate nel mero esercizio quotidiano delle funzioni.

Ecco perché un contenuto deludente dell’iniziativa riformatrice sul processo civile e penale è destinato a non raggiungere i risultati perseguiti, quanto al miglioramento dell’efficienza e della credibilità complessiva della giustizia, e sul piano interno alla magistratura a continuare ad alimentare spinte carrieristiche che costituiscono il presupposto principale delle torsioni che abbiamo riscontrato nel governo della magistratura.

Ma, tornando alle riforme ordinamentali, il quadro complessivo delle cause che hanno determinato la grave situazione di crisi istituzionale che stiamo vivendo, rende del tutto evidente che la sola riforma del sistema elettorale del CSM non sarebbe sufficiente a rimuoverle, pur rimanendo assolutamente indispensabile ed urgente.

Ci sono altri aspetti che dobbiamo prendere in considerazione e che in questa sede è mio preciso dovere indicare e porre al centro del nostro dibattito.

Sono temi sui quali da tempo ci interroghiamo senza essere stati in grado di raggiungere una posizione condivisa o almeno maggioritaria all’interno del gruppo. E questo perché sono questioni che intercettano le aspettative e le ambizioni personali di molti di noi e che nei momenti di confronto svolti in passato ci hanno visti abbarbicati ciascuno alle proprie posizioni, cariche di ricadute personali, senza esser stati in grado di sollevare lo sguardo e di abbracciare una visione complessiva e progettuale più ampia. Sulla nostra capacità di affrontare e sciogliere questi nodi si fonderà la nostra credibilità futura.

Sono tutti temi che affrontano direttamente il problema del carrierismo dilagante al quale è fondamentale porre un argine, nella misura in cui da esso si sprigiona una spinta di domanda clientelare alla quale nessun autogoverno, comunque eletto e nominato (fosse anche sorteggiato), da chiunque composto sarebbe in grado di resistere.

Primo tra tutti è il tema della carriera dirigenziale per come si è strutturata in questi anni. L’accesso in età anticipata rispetto al passato e la temporaneità hanno determinato la creazione di una sorta di cursus honorum che deve essere intrapreso per tempo se si vuole, passando da ruoli dirigenziali sempre più importanti, chiudere la carriera ai vertici di un grande ufficio.

Questo approccio, oggi è incentivato da una giurisprudenza amministrativa che sempre più si interferisce nelle scelte valoriali di fondo, imponendo la propria idea di carriera in magistratura, e costituisce una delle maggiori occasioni di compromissione clientelare dei momenti decisionali. Dobbiamo una volta e per tutte decidere se è questa l’idea di temporaneità che intendiamo abbracciare o proporre un modello alternativo.

Altro tema è quello dell’accesso alle funzioni di legittimità; momento, anch’esso, di forte tensione del sistema. Qui è importante definire il modello di giurisdizione di legittimità che vogliamo perseguire e quanto esso debba essere collegato ed osmotico rispetto al circuito del merito.

Le funzioni fuori ruolo, che in passato abbiamo gli uni demonizzato e gli altri esaltato quale occasione infungibile di esperienze da valorizzare al momento del rientro nella giurisdizione attraverso l’accesso preferenziale a funzioni ambite. Anche qui è necessario raggiungere un punto di equilibrio condiviso, tenendo anche in considerazione il rischio di un progressivo, e già in atto, isolamento istituzionale di una magistratura che finisse per essere completamente assente dai luoghi dove si prendono le scelte discrezionali di natura tecnica e politica che più incidono sulla qualità del nostro lavoro e sullo status del magistrato.

L’organizzazione interna delle procure, in bilico tra la sostanziale conservazione del regime gerarchico piramidale imposto dalla riforma del 2006 e il ritorno al “uno vale uno” della distribuzione orizzontale del potere requirente senza linee di indirizzi e momenti di controllo. Anche qui è necessario trovare un punto di equilibrio tenendo ben a mente che sulla perpetrazione del rigido modello gerarchico si basavano le strategia di chi, governando le nomine ai vertici delle Procure, pensava di poter interferire sulla gestione dei singoli affari che l’ufficio avrebbe in seguito trattato. E ciò contando proprio su un potere assoluto del capo, senza contrappesi all’interno dell’ufficio e senza controlli da parte del circuito di autogoverno.

E poi c’è il tema dell’ambito di discrezionalità che deve essere riconosciuto al CSM. Sappiamo bene che un margine ampio costituisce spazio di manovra nel quale hanno ripreso ad operare maggioranze precostituite, alle quali non sono estranee le componenti laiche, che costituiscono il miglior canale attraverso il quale il clientelismo penetra nelle singole scelte. Allo stesso modo, un’ampia discrezionalità, se mal esercitata, costituisce occasione per frequenti incursioni della giurisdizione amministrativa, sempre più incline a sostituire a quelle del Consiglio proprie valutazioni che coinvolgono il merito delle decisioni più che la loro legittimità.

D’altro canto, una forte limitazione della discrezionalità consiliare sospingerebbe nuovamente la magistratura verso scelte parametrate su criteri formali che, allo stesso modo in cui operava la vecchia regola dell’anzianità senza demerito, rivelerebbero poi sul campo la loro inidoneità.

In ultimo è necessario riflettere su quale sia il corretto rapporto tra il gruppo e la sua dirigenza, da un lato, e la nostra rappresentanza consiliare dall’altro. Ritengo che questo si sia definito, già nei fatti, in modo tale da mantenere aperta una linea di dialogo costante attraverso la quale veicolare lo scambio di posizioni sui temi generali e sulle linee culturali e politiche fondamentali, rimanendo del tutto estraneo all’interferenza nelle scelte puntuali, prime tra tutte quelle che riguardano le singole persone e le loro aspettative. È necessario che questa linea di condotta sia chiara, condivisa da tutti e soprattutto rispettata. Il gruppo non intende venire meno al suo ruolo di sostegno, confronto e stimolo dell’azione consigliare ma rifiuta ogni forma di condizionamento che possa riverberarsi su singole scelte; questa direttrice deve essere mantenuta ferma, anche quale regola di condotta dei singoli aderenti al progetto di AreaDG, se non si vuole perpetrare una ipocrita dualità che pratica riservatamente i comportamenti che pubblicamente stigmatizza.

Sono temi, questi, sui quali la nostra attuale rappresentanza consiliare ha intrapreso dei coraggiosi percorsi di autoriforma e, attraverso la riscrittura di alcune circolari, ha dimostrato di avere chiaro un itinerario che potrebbe favorire alcune soluzioni virtuose. Da un lato tuttavia abbiamo preso atto del forte vigore con cui operano all’interno della magistratura e nel CSM contro spinte di conservazione. Dall’altro, all’interno di AreaDG, queste iniziative non hanno suscitato l’interesse che avrebbero meritato, né hanno consentito si sviluppasse un dibattito compiuto nonostante le diverse occasioni di confronto che il Coordinamento ha cercato di organizzare nonostante le limitazioni imposte dalla situazione sanitaria.

E comunque i temi in esame non possono essere affrontati in modo risolutivo percorrendo la sola strada dell’autoriforma; sono necessari anche alcuni passaggi normativi che tuttavia non ritroviamo nelle bozze di riforma del CSM, e quando ne troviamo traccia sono caratterizzate da un approccio poco consapevole e scarsamente efficace, se non distonico rispetto all’obiettivo da perseguire.

È necessario quindi che questi temi divengano centrali nel dibattito del gruppo e che, soprattutto si giunga a soluzioni condivise. Solo da una linea culturale chiara espressa dal gruppo può infatti partire una serie di proposte rivolte al Consiglio ed al legislatore che possano segnare la via di uscita dalla nostra attuale situazione.

Ciò detto, sono fortemente convinto del fatto che l’uscita dal tunnel non sarà possibile soltanto operando sulle regole attraverso un percorso di riforma ed auto riforma della magistratura, né mediante una pur necessaria rifondazione etica che passi attraverso l’assunzione di responsabilità personale quando necessario e politica in ogni caso.

Ritengo che sia necessario operare tutti noi attivamente per un recupero del senso delle nostre funzioni e del ruolo che tutti insieme siamo chiamati a svolgere, attraverso la giurisdizione per la tutela e la riaffermazione dei diritti.

Infatti sono convinto che parte importante della deriva etica che ha colpito la giurisdizione sia determinata dallo smarrimento di chiari riferimenti culturali.

Il ripiegamento su noi stessi, sul particolare delle nostre carriere, sulle ambizioni come unico orizzonte, sulla dirigenza come privilegio e non come servizio, sull’impegno lavorativo quotidiano come onere ed ostacolo rispetto ad altri obiettivi perseguiti, dipende in primo luogo dalla perdita del significato sociale del rendere giustizia.

Rispetto a ciò, le pur frustranti limitazioni determinate da un sistema complessivamente inefficiente, non possono costituire l’alibi per la dismissione del ruolo costituzionale che è assegnato alla giurisdizione, perso di vista il quale il nostro lavoro non può essere affrontato se non in modo burocratico o tecnicistico e comunque nell’assoluta indifferenza rispetto alle persone che attendono giustizia, al significato delle nostre decisioni e ai valori di riferimento che dovremmo contribuire a realizzare.

Questo profondo senso sociale e “politico” della giurisdizione, che abbiamo appreso dalla militanza culturale e dall’impegno professionale delle generazioni che ci hanno preceduto, soprattutto nell’ambito della magistratura progressista, rischia di insterilirsi e di non poter essere ulteriormente comunicato alle nuove generazioni e quindi di perdersi definitivamente.

Eppure il mondo intorno a noi non ha smesso di richiedere giustizia. Sono cambiate alcune coordinate culturali e sociali delle quali dobbiamo prendere atto per non assumere connotati passatisti e a volte persino grotteschi, ma non è venuto meno il nostro ruolo in una società nella quale la domanda di giustizia è cambiata, gli interessi ed i diritti disconosciuti e negati sono nuovi rispetto al passato ma non hanno cessato di reclamare attenzione.

Il nostro impegno in questo campo non si deve affievolire e non può essere consegnato alla mera testimonianza culturale: deve essere praticato nella giurisdizione quotidiana.

Alzare la testa dal piano di lavoro, capire dove si dirige la società e dove si nascondono le nuove disuguaglianze è il modo attraverso il quale possiamo rompere l’isolamento al quale ci siamo consegnati da soli e nel quale altri ci vogliono trattenere. È il modo attraverso il quale riprendere il dialogo interrotto con la società e recuperare la nostra credibilità. È il modo migliore per dimostrare sul campo la strumentalità delle campagne di disinformazione e di svelare la strumentalità di alcuni disegni riformatori. E' il modo per tornare ad essere non certo la guida etica e culturale di chissà quale meraviglioso progetto ma, più semplicemente di tornare ad occupare il posto che la Costituzione ci ha assegnato nella vita democratica del Paese.

Eugenio Albamonte