Comunicato

La Giustizia nel Decreto “ristori”: gravi perplessità di merito e di metodo

Nel processo penale si privilegia la trattazione in presenza: una scelta irrazionale, adottata senza coinvolgere l’ANM, che, incredibilmente, recepisce il contenuto di intese raggiunte tra un ristretto gruppo di procuratori e le camere penali

Il Decreto Legge n. 137 del 28 ottobre 2020, negli artt. 23 e 24 relativi alla gestione dell’emergenza COVID nel settore giustizia, suscita forti perplessità circa il metodo che ha condotto alla sua adozione, che appare meritevole di riflessione così come il merito del provvedimento.

Il decreto è stato anticipato, infatti, da un documento congiunto, sottoscritto dall’Unione delle Camere Penali Italiane e da alcuni Procuratori di importanti distretti, e – incredibilmente – ne recepisce in modo quasi pedissequo i contenuti, alcuni dei quali appaiono del tutto inadeguati a fronteggiare l’ingravescenza del contagio nelle aule giudiziarie e nel corso delle fasi dibattimentali del processo.

Il documento bilaterale in questione, oltre a richiedere opportuni interventi normativi finalizzati a gestire in modo più sicuro la fase delle indagini e le interlocuzioni tra PM e difesa, si avventura, senza alcun coinvolgimento della magistratura giudicante, nell’indicazione delle modalità ritenute apoditticamente più opportune per la gestione della ben più complessa fase del giudizio. Al punto 4, in particolare, pur ipotizzando l’accesso ad una trattazione cartolare o da remoto di alcune udienze, ne limita drasticamente la portata, richiedendo, nella sostanza, che, nonostante l’indubbia acutizzazione dei contagi negli ambienti giudiziari, i processi vengano comunque trattati, nella quasi totalità, con la modalità ordinaria.

Questo testo, comunicato tra l’altro con modalità discutibili, è inspiegabilmente diventato, l’ossatura portante del Decreto Legge con riferimento alla giustizia penale.

Si prevede infatti, che le udienze dibattimentali e preliminari possano celebrarsi mediante videoconferenza e collegamenti da remoto, con il consenso delle parti, purché non prevedano esame di testi, parti, consulenti e periti né discussione. In tali ultimi casi neanche il consenso delle parti, e in particolare del difensore e dell’imputato, può consentire l’ accesso ad una modalità di trattazione diversa da quella ordinaria.

Questa previsione sembra, in realtà, ignorare le difficoltà oggettive che, in queste ultime settimane, hanno caratterizzato proprio la fase del giudizio penale. Infatti, la ripresa pressoché totale delle attività giudiziarie e con essa l’afflusso intensificato delle persone negli ambienti giudiziari, già inidonei a garantire il rispetto delle condizioni minime di sicurezza, sta generando, com’era prevedibile, un consistente numero di contagi tra gli avvocati, il personale amministrativo e i magistrati.

Siamo convinti che un approccio più consapevole e realistico ai rischi sanitari inscindibilmente collegati alla celebrazione dei processi, nella generale ed ormai cronicizzata inadeguatezza degli ambienti giudiziari, avrebbe consigliato, nel perseguire l’interesse comune diretto ad evitare un secondo lockdown della giustizia, di ampliare il novero delle udienze suscettibili di essere trattate da remoto, anche soltanto potenziando la possibilità per le parti di scegliere tale modalità attraverso un accordo condiviso.

Si è invece preferita una soluzione astratta che costringe sempre e comunque alla trattazione in presenza, tralasciando qualsiasi interlocuzione con la magistratura giudicante e con la stessa Associazione Nazionale Magistrati nella definizione di un documento di intesa che ha così fortemente indirizzato le scelte del Ministro.

Stigmatizziamo che si sia deciso di perseverare nella trattazione degli affari giudiziari secondo le stesse modalità della prima fase emergenziale, con il rischio, ogni giorno più concreto, di trovarsi costretti a non trattare nulla paralizzando nuovamente la giustizia penale.

Perplessità suscitano anche le norme riguardanti il processo civile e del lavoro: innanzitutto, non è chiara la formulazione del primo comma dell’art. 23, e quindi la definizione del termine finale di efficacia delle disposizioni emergenziali. Questo termine sembra potere essere individuato, attraverso l’interpretazione di un complesso reticolo di norme, nella data del 31 gennaio 2021. Trattandosi di norme che derogano ad istituti processuali una maggior chiarezza normativa ci sembra sarebbe stata doverosa.

Con evidente rimeditazione, preso atto dell’aggravarsi dell’emergenza, il legislatore ha nuovamente, e questa volta condivisibilmente, consentito che la trattazione a distanza dei processi possa avvenire anche con i giudici al di fuori degli uffici giudiziari, superando le criticità segnalate da molti (compresa l’ANM) e sfociate anche in una questione di costituzionalità sollevata da un Tribunale.

Positiva è anche la regolamentazione a distanza di tante attività, come le camere di consiglio, i procedimenti di separazione e divorzio, così come la previsione della possibilità di tenere le udienze pubbliche a porte chiuse, e la sospensione dei procedimenti esecutivi.

Ombre sembrano addensarsi, invece, sulla mancanza di idonee indicazioni per i procedimenti locatizi, o per quelli fallimentari, nei quali restano le criticità proprie di tutti quei giudizi in cui le parti personalmente possono comparire.

Un quadro, insomma, che resta frastagliato, ma caratterizzato da una esigenza – nel civile evidentemente avvertita anche dal foro – di limitare quanto più possibile gli accessi agli uffici giudiziari, secondo una visione chiaramente emergenziale, ma dalla quale è auspicabile possano emergere elementi (come, ad esempio, i depositi tramite PEC) da utilizzare in futuro per una più efficace gestione del processo.

È grave, perciò, constatare che le medesime esigenze di tutela dell’incolumità, della salute pubblica e degli operatori non abbiano animato anche le scelte adottate in merito al processo penale, in un momento in cui (anche per la persistente idea della separazione delle carriere al centro del dibattito politico) è più che mai necessario offrire al dibattito pubblico riflessioni comuni a tutta la giurisdizione.

Grave, e forse non adeguatamente ponderata nel suo significato e nelle sue conseguenze, la scelta di alcuni procuratori di intrattenere autonome interlocuzioni esterne sui temi dell’organizzazione di altri uffici giudiziari, sostituendosi nella rappresentanza della magistratura al Consiglio superiore e all'Associazione nazionale magistrati.

Una simile scelta appare oltremodo criticabile sia perché in linea con l’inaccettabile idea della separazione delle carriere, sia perché è stata immediatamente colta dalla politica, che ha un evidente interesse a confrontarsi con una decina di capi uffici, piuttosto che non con l’intera magistratura.

31 ottobre 2020