Corte di Appello di Palermo

Inaugurazione Anno Giudiziario 2019

Relazione del Presidente Matteo Frasca

Rivolgo innanzitutto il mio deferente saluto al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, garante della Costituzione e dei suoi principi e valori ideali, che mostra di difendere e valorizzare in ogni occasione.

Saluto anche:

la Consigliere Loredana Micciché, rappresentante del Consiglio Superiore della Magistratura;

il dott. Antonio Mungo, rappresentante del Ministro della Giustizia;

Sua Eccellenza Reverendissima Monsignor Corrado Lorefice;

tutte le Autorità civili e militari;

i Magistrati del distretto e i Colleghi delle altre Magistrature;

l'Avvocato distrettuale e gli Avvocati dello Stato, il Rappresentante del Consiglio Nazionale Forense, i Presidenti dei Consigli dell'Ordine del distretto e gli Avvocati, con i quali prosegue e si intensifica, in un fecondo dibattito di idee e progetti, l’interlocuzione sui temi della giurisdizione;

il Magnifico Rettore dell’Università di Palermo e gli illustri Esponenti del mondo accademico;

i Magistrati onorari;

la Polizia Giudiziaria e tutte le Forze di Polizia, alle quali rinnovo un grande e sentito apprezzamento per l’attività svolta con instancabile impegno, dedizione e senza clamori, conseguendo risultati di straordinario rilievo nell’azione di contrasto alla criminalità a conferma di un livello di professionalità che primeggia nel panorama europeo e che costituisce motivo di orgoglio per il Paese;

il Personale amministrativo che tra tante difficoltà contribuisce in modo determinante al funzionamento della Giustizia;

i Rappresentanti degli Ordini professionali, delle Associazioni Magistrati, delle Associa­zioni forensi e delle Organizzazioni sindacali;

i Giornalisti che, in un contesto generale di insofferenza alla critica e al dissenso, sono chiamati ad assicurare un'informazione libera, credibile, responsabile e plurale, concorrendo alla formazione delle coscienze e alla crescita della democrazia del Paese; un ricordo particolare intendo rivolgere alla memoria di Mario Francese del cui omicidio per mano mafiosa ricorre oggi il quarantesimo anniversario;

tutti gli Ospiti presenti e, in particolare, i docenti e gli studenti che ogni anno partecipano con encomiabile interesse a questa cerimonia solenne, manifestando condivisione dei valori di legalità e giustizia.

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Il dibattito pubblico sulla amministrazione della giustizia, che costituisce l’oggetto della cerimonia di inaugurazione dell’Anno Giudiziario, è avviato dalla relazione dei Presidenti delle Corti di Appello che, oltre a presentare il rendiconto dell'attività svolta, hanno anche il compito di individuare temi da sottoporre al dibattito in vista e in funzione dell’attività futura.

Un rapido e generale consuntivo, quindi, che serve a esporre alla comunità lo stato dell'andamento della Giustizia nel distretto in modo non autoreferenziale e con uno sguardo rivolto anche al futuro, per contribuire a costruirlo attraverso un percorso di proficuo confronto collettivo.

L’informatica ci consente di avere la fotografia degli uffici in tempo reale, per cui continua a destare perplessità il modulo organizzativo posto a base della cerimonia inaugurale, che arresta i dati storici di riferimento a diversi mesi prima, con il rischio di sviluppare un confronto su ciò che intanto è cambiato, di parlare di criticità magari nel frattempo risolte e di non dibattere su quelle medio tempore sopravvenute.

Il dibattito e la condivisibile aspettativa di un confronto autentico su temi di interesse collettivo rischiano di essere indeboliti e divenire inadeguati se ancorati a una realtà storica diversa.

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Il funzionamento dell'amministrazione della Giustizia in questo distretto giudiziario nel periodo che va dal 1° luglio 2017 al 30 giugno 2018 conferma le valutazioni complessivamente positive espresse lo scorso anno, ancorché persistano elementi di criticità.

Nel settore civile, dopo un biennio caratterizzato da un costante incremento delle sopravvenienze mediamente nella misura del 3% annuo, si è realizzata un’inversione di tendenza con una flessione dell’1,9%, che, coniugata a un lieve aumento dei procedimenti definiti, ha determinato una riduzione della pendenza del 2,6%.

Nel settore minorile, dopo gli incrementi anomali osservati del biennio precedente [41,5% nell’A.G. 2015-16 rispetto all’A.G. 2014-15 e 106,1% nell’A.G. 2016-17 rispetto al periodo precedente] si rileva una riduzione delle sopravvenienze pari al 22,4%, dovuta essenzialmente alla flessione dei procedimenti in materia di minori stranieri non accompagnati, mentre si conferma il trend altamente positivo delle definizioni, aumentate di ben il 32,5%, cui ha corrisposto una riduzione del 27,4% delle pendenze finali, frutto delle oculate soluzioni organizzative adottate dal Presidente e dall'impegno dei magistrati che fanno parte dell'Ufficio e che non sempre viene colto appieno nella sua rilevanza sociale.

Nel settore penale giudicante la pendenza è diminuita del 4,18% in Corte di Appello; é cresciuta del 7,65% nei Tribunali del distretto e del 4,20% nel Tribunale per i minorenni. Negli uffici del giudice di pace si è registrato un decremento del 12,49%.

Nel settore requirente, per il quale rinvio alle valutazioni al Procuratore Generale, si registra un incremento modestissimo della sopravvenienza di procedimenti a carico di "noti”, mentre quelli esauriti sono diminuiti dell’11,7%; la pendenza finale è diminuita del 7,73%.

Per quanto attiene più specificamente al settore civile va premesso che è ormai acquisito il metodo di rilevazione secondo cui l’arretrato non è costituito da tutte le controversie pendenti, ma soltanto da quelle rilevanti ai fini del risarcimento per irragionevole durata del processo, cioè le cause che pendono da oltre tre anni in primo grado, due anni in secondo ed un anno in Cassazione.

Inoltre, coerentemente con le indicazioni provenienti dalla Cepej, dalla giacenza cd. "patologica" é esclusa l'attività del giudice tutelare, i cui procedimenti sono destinati ontologicamente a durare, nonché gli accertamenti tecnici preventivi in materia di lavoro e previdenza, e altresì le esecuzioni e i fallimenti, trattandosi di affari che sfuggono al potere di impulso del giudice che, pertanto, non può incidere sulla loro durata.

Orbene, nell'intero Paese l’arretrato vero e proprio al 30 giugno 2018 era pari a 573.771 controversie, con una riduzione, in appena un anno, del 10,1% e costituiva il 29,1% dell’intero contenzioso, concentrato nella maggior parte dinanzi alla Corte di Cassazione.

Il 70,9% delle cause civili pendenti negli uffici giudiziari italiani era quindi costituito da procedimenti relativamente recenti.

Continua, pertanto, il trend positivo iniziato nel 2011, quando un cambiamento culturale e organizzativo ha avviato un costante processo di riduzione dell’arretrato, che rende giusto merito ai giudici italiani che, al vertice del panorama europeo, ogni anno decidono un numero di controversie più alto di quelle sopravvenute e indirizzano i maggiori sforzi alla definizione delle cause più vecchie.

L’ultimo rapporto della CEPEJ pone in evidenza, confermando quanto già rilevato nel precedente rapporto, che anche nel 2016 i giudici italiani hanno ricevuto un numero di affari superiore alla media europea, così come superiore alla stessa media europea è stato il numero degli affari definiti.

Occorre avere chiara la consapevolezza che, fino a quando non sarà rimosso il pesante fardello dell’arretrato, ogni tentativo di restituire efficienza autentica al processo civile e quindi effettività alla tutela dei diritti resterà solo una mera aspirazione priva di reali possibilità di realizzazione.

L’importanza della eliminazione del contenzioso più datato è testimoniata anche dalla crescente entità delle controversie promosse contro lo Stato per violazione del termine di durata ragionevole del processo, che nel 2018 ha comportato nel solo distretto della Corte di Appello di Palermo il pagamento della somma di € 1.692.880,78, con un incremento del 62% rispetto all’anno precedente e del 354% rispetto al 2016.

Un grave depauperamento dell’Erario sul quale già incide pesantemente il costo per il patrocinio a spese dello Stato, la cui costante crescita appare sintomatica di una tendenziale deviazione incontrollata dell’istituto dalla sua nobile funzione di garanzia di accesso alla giustizia per i non abbienti verso una anomala forma di sostegno del reddito di una parte del Foro.

Basti pensare che nel distretto di Palermo nell’anno in esame la spesa è stata pari a circa € 40.000.000,00 con un preoccupante tasso di crescita nell’ultimo triennio che rende necessaria e indifferibile una seria riflessione non già sulla indiscutibile rilevanza dell’istituto quanto sul suo concreto utilizzo.

Per quanto attiene all’andamento più in dettaglio degli uffici del distretto, in Corte di Appello si sono registrati un aumento della sopravvenienza e una diminuzione della pendenza dovuta al significativo aumento delle definizioni, con notevole incremento dell'indice di ricambio, che ha superato quota 100, e di quello di smaltimento.

Anche nei Tribunali, i cui Presidenti hanno segnalato le difficoltà in cui versano gli Uffici di primo grado per l’aumento e la complessità della domanda di giustizia e per l’inadeguata distribuzione del personale amministrativo, l’andamento è positivo sia pure in misura complessivamente inferiore e con diversità di risultato tra i singoli Uffici.

Ma ciò che appare più rilevante è il dato relativo al contenzioso ultra biennale in Corte e ultra triennale nei Tribunali, che, in linea con il rendimento nazionale, prosegue nel virtuoso percorso di contrazione segnalato nella relazione dello scorso anno e che si iscrive in un globale processo di abbattimento dell’arretrato, che soprattutto in alcuni settori ha fatto registrare risultati di assoluto rilievo.

Infatti, se nella sezione lavoro della Corte praticamente non esiste più contenzioso ultra biennale, nella seconda sezione civile tale tipologia di controversie, che al 30 giugno 2015 era pari al 64,8% del contenzioso e al 30 giugno 2017 era diminuito al 56%, al 31 dicembre 2018 si é ridotto al 36,3%, con un trend che lascia presagire che in breve tempo il dato potrebbe essere sostanzialmente azzerato: un risultato del tutto inedito per la Corte palermitana.

Analogo risultato non è stato conseguito dalle altre sezioni civili che non hanno goduto della medesima stabilità organizzativa della seconda sezione e che inoltre hanno subito situazioni contingenti negative, superate le quali è ragionevole attendersi un miglioramento della performance.

Va ancora una volta segnalato il notevole contributo che ai risultati positivi è venuto dall’apporto dei giudici ausiliari, una risorsa forse inizialmente sottovalutata a livello nazionale, ma che nel distretto palermitano, valorizzata dal paziente impegno dei presidenti di sezione e dalla collaborazione di alcuni consiglieri, si sta rivelando preziosa e va pertanto conservata e se possibile migliorata, e non già ridimensionata come indicato nell’art. 1 comma 701 della l. 205/2017 della legge che ha previsto la riduzione dell’organico complessivo da 400 a 350 unità, che peraltro il CSM allo stato sta applicando non già con una redistribuzione organica e globale delle piante nel territorio nazionale ma in base al casuale evento delle vacanze via via sopravvenute che non verranno coperte sino a quando non sarà raggiunta la nuova soglia di legge. 

Ma il dato complessivo non è positivo soltanto sotto l’aspetto quantitativo che certamente è solo una parte dell’indice di efficienza della Giustizia, ma anche sul versante qualitativo, valutato in relazione a quello che allo stato appare essere l’unico elemento oggettivo utilizzabile, ossia l’indice di stabilità delle decisioni.

Nell’ultimo biennio il tasso di impugnazione in appello delle sentenze civili emesse dai Tribunali del distretto è stato pari al 22% e ciò significa che quattro sentenze su cinque di primo grado non vengono impugnate; inoltre, soltanto la metà di quelle impugnate viene riformata in secondo grado.

Ancor più apprezzabile è l’indice di stabilità delle sentenze della Corte di Appello se si considera che i ricorsi per cassazione riguardano appena il 14,9% delle decisioni e che di questa così limitata percentuale circa il 74% viene confermato.

Disomogeneo è stato l’andamento della giurisdizione nel settore penale.

Nei Tribunali, infatti, la pendenza negli uffici GIP/GUP è rimasta complessivamente invariata, mentre nel settore dibattimentale si è avuto un aumento medio dell’11,8%, ma in alcuni uffici e, in particolare in alcuni settori di essi, si sono verificate rilevanti scoperture di organico, come nell’ufficio GIP/GUP del Tribunale di Palermo, che in certi periodi ha raggiunto livelli davvero preoccupanti, aggravando i preesistenti problemi organizzativi che il Presidente del Tribunale ha affrontato con grande impegno.

E analogo impegno è stato apprestato in generale da tutti i Presidenti dei Tribunali del distretto chiamati a confrontarsi con frequenti problemi di turn over e di utilizzo al meglio delle risorse disponibili non sempre adeguate, in attuazione di una rinnovata e responsabile cultura della dirigenza che anche oggi va apprezzata.

Non va trascurata l’incidenza fortemente negativa che hanno sul rendimento degli Uffici alcuni processi per fatti riconducibili alla criminalità di tipo mafioso che, per la complessità e la rilevanza delle vicende, o per la gravità delle imputazioni, il numero, la qualità soggettiva e la caratura criminale degli imputati, richiedono uno straordinario impegno e l’impiego in via esclusiva e prolungata di parte delle risorse disponibili, e ciò inevitabilmente causa l'alterazione dell’ordinario andamento degli uffici.

La specificità della realtà del nostro distretto emerga anche da un altro dato: nell'anno giudiziario in esame il numero degli imputati detenuti nei procedimenti iscritti nell’anno giudiziario è stato assai elevato e pari a 1.156.

Tra i tanti processi di rilievo, che non sarebbe possibile in questa sede elencare, va segnalato il processo cd. “trattativa Stato mafia”, celebrato dinanzi alla Corte di Assise del Tribunale di Palermo e la cui sentenza di oltre 5.000 pagine, dopo un dibattimento che ha richiesto un eccezionale impegno, è stata depositata, nel rispetto dei termini, il 19 luglio 2018, nonché il processo cd. “Apocalisse”, con 96 imputati di cui 47 in custodia cautelare e la cui sentenza di primo grado di oltre 9.000 pagine era stata oggetto di 69 voluminosi atti di appello; il processo é stato definito dalla prima sezione della Corte di Appello in tempi del tutto compatibili con la sua straordinaria complessità.

La difficoltà della situazione, per affrontare la quale in diversi uffici sono stati adottati provvedimenti organizzativi anche di notevole rilievo, non ha però fatto mancare risultati particolarmente positivi.

Se in generale nei Tribunali gli obiettivi stabiliti nel programma di gestione annuale sono stati raggiunti, nelle sezioni penali della Corte di Appello questi obiettivi sono stati ampiamente superati in alcuni casi anche in misura rilevante, grazie all’impegno dei magistrati che ne fanno parte e ai quali, anche in questa solenne occasione, intendo rivolgere un vivo generale elogio per lo spirito di servizio ancora una volta dimostrato.

E al valore numerico assoluto va aggiunto che è assai contenuto il numero dei procedimenti ultra triennali in primo grado [2.606, pari al 7,05% della pendenza complessiva], così anche quello dei processi ultra biennali in Corte [appena 354, pari al 5.5% della pendenza] che, peraltro, in buona parte, alla data odierna già sono stati definiti.

Ma anche l’indice di stabilità è stato pregevole, a dimostrazione della elevata qualità delle decisioni.

In un settore nel quale l’interesse all'impugnazione per diverse ragioni è fisiologicamente più elevato che nel settore civile, nell’anno giudiziario in esame è stato appellato il 34% delle decisioni di primo grado e di queste impugnazioni solo il 35% è stato definito con la riforma nel merito.

Ancor più lusinghiero è il dato relativo alla Corte di Appello le cui decisioni, impugnate nella misura del 35,68%, sono state riformate dalla Corte di Cassazione in appena l’11% dei casi, una percentuale di ben 4 punti inferiore alla media nazionale già in sé particolarmente apprezzabile.

L’andamento è poi senz'altro positivo anche sul versante della prescrizione, che ha fatto registrare una flessione del 19% rispetto al dato dell’anno precedente, con percentuali medie assai basse e notevolmente inferiori alla media nazionale.

Ponendo attenzione agli uffici di secondo grado, nei quali il rischio della maturazione della prescrizione è più elevato e che presentano un andamento assai disomogeneo, l’analisi dei dati pone in evidenza che la Corte di Appello di Palermo, con il 6,86% complessivo di prescrizioni, è di fatto la Corte più virtuosa d’Italia, preceduta soltanto da Trento, Bolzano e Trieste, che però notoriamente hanno flussi di lavoro contenuti.

Il tema della prescrizione, che ciclicamente torna al centro del dibattito politico rivitalizzandosi soprattutto in occasione di dichiarazioni di estinzione del reato in processi per fatti gravi e con rilevanza mediatica, ha ripreso straordinario vigore negli ultimi mesi per effetto della riforma che ha previsto la sua interruzione a decorrere dalla sentenza di primo grado.

L'entrata in vigore della novella legislativa é stata differita al 1° gennaio 2020 e conseguentemente é prevedibile che i suoi effetti pratici potranno essere valutati non prima di qualche anno, anche a prescindere dal fatto che sembra che ci sia una sorta di inespresso vincolo politico di subordinazione del nuovo regime della prescrizione a una riforma globale del processo penale, che, in caso di sua mancata attuazione, potrebbe presagire a un rinvio sine die della riforma medesima.

Tuttavia, la sua portata fortemente innovativa per il nostro ordinamento, che va ben al di là dell'intervento riformatore adottato con la legge 107/2017, induce a formulare alcune riflessioni.

Si tratta di un tema che proprio per la sua delicatezza e per la sua rilevanza impone a giuristi, avvocati e magistrati un approccio scevro da pregiudizi ideologici o condizionato da interessi corporativi, per analizzare con coerenza e onestà intellettuale la questione nella sua rilevanza scientifica e nelle sue ricadute pratiche.

E' molto diffusa l'insoddisfazione per l'attuale regolamentazione della prescrizione, individuata spesso come strumento che garantisce l'impunità soprattutto per gli imputati cd. eccellenti, contribuendo ad alimentare un diritto penale diseguale che trova plastico riscontro nella composizione della popolazione carceraria nella quale gli appartenenti alla classe dirigente sono una percentuale incomparabilmente inferiore rispetto a quella della gente appartenente alle classi sociali più deboli, per cui ne viene fuori un'immagine di un sistema tollerante con i forti e aggressivo con i deboli.

In ultima analisi un diritto penale che finisce per essere ritagliato su un prototipo di delinquente appartenente alle classi sociali più emarginate e meno scolarizzate, per le quali appare sempre problematico il conseguimento degli effetti di rieducazione dei condannati.

Gli elementi di conoscenza e le acute valutazioni anche in termini prospettici formulate dal Presidente del Tribunale di Sorveglianza che con notevole efficienza gestisce il delicato settore di competenza ne forniscono una rappresentazione particolarmente efficace.

Peraltro, occorre riconoscere che la prescrizione allo stato appare l'unica medicina sintomatica per trattare la patologia cronica da cui è affetto il nostro processo: la sua lentezza.

Ed é proprio questa, quindi, la patologia da affrontare, perché incide in modo determinante sulla efficienza del processo, valore che deve stare a cuore a tutti, avvocati, magistrati, operatori del diritto, senza distinzioni di sorta, perché è un bene posto a garanzia dei diritti dei cittadini.

Sono necessari interventi strutturali sinergici e non iniziative estemporanee e non coordinate, a cominciare da una robusta e diffusa depenalizzazione che vada ben al di là di quella marginale realizzata nel 2016.

Non è possibile esaminare in questa sede i problemi connessi con le scelte generali di politica criminale, nella quale le istanze securitarie inducono periodicamente a scelte panpenalistiche che nei fatti si rivelano improduttive, se non quando dannose.

Basti considerare che nel sistema attuale le pene pecuniarie, la cui misura edittale per talune ipotesi di reato é meramente suggestiva, vengono riscosse in misura inferiore al 10%.

Quindi, si celebrano i processi, si accertano le responsabilità, si pronunciano le condanne e anche quando queste diventano definitive non si eseguono le pene: un inutile dispendio di risorse umane e materiali per la complessa e costosa macchina della Giustizia, e la vanificazione della funzione del processo, oltre che, naturalmente, della funzione generalpreventiva e specialpreventiva della sanzione penale.

Ma é necessario anche un incremento delle risorse umane, calibrato sulla base delle effettive necessità e non indifferenziato e occorre anche eliminare le pseudogaranzie processuali, che nulla hanno a che vedere con quelle autentiche e che rallentano ingiustificatamente il processo.

Deve essere ulteriormente potenziata l'informatizzazione e deve essere completato il percorso di attuazione del processo telematico, che, divenuto strumento insostituibile nel settore della giurisdizione civile pur con le sue criticità, non ha raggiunto analogo livello di avanzamento nel settore penale, e questo rende ancor più apprezzabile la rinnovata attenzione al tema posta dal C.S.M. nella recentissima e articolata delibera del 9 gennaio scorso.

E' indispensabile la rivisitazione del sistema delle notifiche.

L'annunciato aumento dell'organico dei Magistrati di seicento unità e quello del personale amministrativo di tremila, che, in particolare, dovrebbe contribuire a colmare i vuoti che per alcuni profili professionali sono particolarmente gravi, si pongono in direzione del recupero di efficienza, anche se dovranno essere verificati i tempi di fattibilità di tali operazioni che ben difficilmente potranno essere brevi per i magistrati, mentre sarà interessante verificare, per ciò che attiene al personale amministrativo, se sarà replicata la recente esperienza positiva del maxi concorso per assistente giudiziario definito in tempi eccezionalmente rapidi.

Peraltro, non vanno trascurati gli effetti della recentissima riforma delle pensioni ancora da esplorare che potrebbe comportare un massivo e immediato esodo di personale per effetto del quale i progettati aumenti di organico finirebbero per essere soltanto un mezzo, per di più a efficacia differita, per colmare i vuoti medio tempore verificatisi e non per realizzare l'indispensabile potenziamento degli uffici.

Ulteriore effetto distorsivo della lentezza del processo è quello che investe l'aspetto sanzionatorio, essendo evidente che ben difficilmente la esecuzione di una pena a distanza di tempo dalla commissione del fatto illecito potrà avere l'effetto rieducativo che la Costituzione le assegna.

Non è però solo un problema di norme e di mezzi.

Calamandrei scriveva che “per il buon funzionamento del processo conta, assai più della perfezione tecnica delle astratte norme che lo regolano, il costume di coloro che sono chiamati a metterle in pratica”, con un evidente richiamo all’etica della responsabilità che deve essere tenuta ben presente da tutti i protagonisti della giurisdizione.

L'irragionevole durata del processo viola un diritto fondamentale dell'imputato, ma il trattamento di questa patologia non é certamente la prescrizione, che é stata definita soltanto una "medicina sintomatica", un apparente rimedio che però é produttivo di gravi effetti collaterali che si traducono in un aggravamento della inefficienza del processo penale.

L'obiettivo, quindi, deve essere quello di assicurare tutela al diritto alla ragionevole durata del processo ed evitare gli effetti devastanti della prescrizione.

Se il processo penale é finalizzato all'accertamento dei reati, alla individuazione del responsabile e alla irrogazione della pena e pertanto la sua funzione essenziale è l'attuazione della legge penale sostanziale, la tutela dell'imputato non costituisce la finalità del processo ma il modo con il quale l'obiettivo si realizza, per cui l'efficienza del processo deve essere valutata nella sua capacità di garantire l'attuazione della legge penale.

L'esercizio della potestà punitiva é funzionale anche ad assicurare tutela ai diritti fondamentali della vittima ai quali guarda con peculiare interesse la giurisprudenza della Corte di Strasburgo che indica tra gli obblighi dello Stato a tutela dei diritti fondamentali l'attivazione delle necessarie indagini per accertare gli eventuali fatti che violano tali diritti, individuare i responsabili e irrogare, all'esito di un processo equo, le sanzioni previste.

Una declinazione in prospettiva diversa del principio della ragionevole durata del processo che ne arricchisce il contenuto e rafforza la funzione del processo come strumento di attuazione della legge penale quale dovere dell'ordinamento coerente con i principi di obbligatorietà dell'azione penale e di eguaglianza e con quelli nascenti dagli ordinamenti sovranazionali di tutela delle vittime del reato.

La Corte EDU, nel caso Alikaj contro Italia, ha ravvisato la violazione del profilo procedurale del diritto alla vita di cui all'art. 2 della Convezione Europea dei diritti dell'Uomo in una ipotesi in cui la condanna di un agente dello Stato per omicidio colposo era stata impedita dalla prescrizione dovuta alla durata del processo penale; prescrizione inclusa nella categoria delle misure inammissibili perché produttive dell'effetto di impedire una condanna nonostante l'accertamento della responsabilità dell'imputato.

Pertanto, il mancato accertamento della responsabilità in presenza di fatti di reato comporta, in linea di principio, la violazione dei principi costituzionali e di quelli sovranazionali.

Sotto altro profilo va osservato che il doveroso esercizio della potestà punitiva dello Stato deve essere bilanciato e coordinato con i diritti dell'imputato all'esercizio del diritto di difesa e al giusto processo.

Ebbene, se la declaratoria di estinzione del reato per prescrizione pregiudica irrimediabilmente l'esercizio del potere-dovere dello Stato di accertare la esistenza del reato e pronunciare la relativa condanna, occorre valutare se questo sacrificio sia giustificato in relazione alle ragioni sottese alla prescrizione.

E' noto che, secondo la più accreditata dottrina, queste sono costituite dal venir meno della giustificazione della pena per effetto del decorso del tempo e dalla difficoltà di ricostruzione del fatto dal punto di vista probatorio con conseguente pregiudizio del diritto di difesa dell'imputato.

La prima ragione ha un suo fondamento solo per il periodo che intercorre tra la commissione del fatto e l'avvio degli accertamenti necessari a verificare la fondatezza della pretesa punitiva, ma non ha alcuna plausibile giustificazione per il periodo successivo, in cui lo Stato ha manifestato specifico interesse all'azione penale, che è ancor più evidente dopo il rinvio a giudizio e a maggior ragione dopo la sentenza di condanna di primo grado.

Ancor più evanescente è il riferimento alla difficoltà di accertamento del fatto.

Infatti, anche a prescindere dalla circostanza che si tratta di un argomento già in sé debole se è vero, come è vero, che per alcuni reati non opera la prescrizione, basta osservare che di regola l'acquisizione delle prove avviene nel corso del giudizio di primo grado, concluso il quale sembra un vero e proprio controsenso parlare di difficoltà,a nche solo potenziali, sul versante probatorio.

Non esistono ragioni tecnicamente sostenibili che giustificano il decorso della prescrizione nel corso del processo, anche se va pur sempre tenuto conto del dato storico per il quale de jure condito la prescrizione di fatto opera come un rimedio surrettizio contro la irragionevole durata del processo, tutelando il diritto dell'imputato a non rimanere tale sine die.

Sicché, pur permanendo la incompatibilità concettuale tra efficienza del processo e prescrizione, la loro interazione fattuale ha indotto gli interpreti a studiare e proporre soluzioni normative che individuino un punto di equilibrio che, nel rispetto del diritto alla ragionevole durata del processo, non sacrifichi oltre misura l'efficienza.

In disparte il problema della maturazione della prescrizione nel corso delle indagini preliminari, che si pone su un altro piano tecnico e investe profili del tutto diversi, compreso quello relativo alla possibilità di trattare, alle condizioni date, tutti i procedimenti, la casistica presenta diverse tipologie di situazioni.

Esistono, innanzitutto, le ipotesi nelle quali l'azione penale viene esercitata in prossimità della scadenza del termine di prescrizione e per le quali, quindi, l'unico reale obiettivo finisce per essere una inutile corsa di ciascun Ufficio per evitare che la sicura estinzione del reato maturi dinanzi a sè, con la paradossale conseguenza che si lavora con la frustrante consapevolezza della inutilità del lavoro e con un ingiustificato dispendio di risorse umane e materiali, sottratte alla trattazione di altri processi.

A queste situazioni si aggiungono quelle in cui la complessità della vicenda processuale comporta un giustificato allungamento dei tempi, anche se la sollecitudine nella trattazione non basta a evitare l'esito temuto.

Infine, esistono altre ipotesi nelle quali la possibilità della maturazione della prescrizione suggerisce strategie difensive che, seppur compatibili con il sistema normativo, finiscono per allungare i tempi di definizione dell'iter processuale complessivo.

La scelta dei riti alternativi è oggettivamente disincentivata dalla possibilità di conseguire il più favorevole effetto della prescrizione, così come la possibilità che la prescrizione maturi in grado di appello è un incentivo alla proposizione di impugnazioni prive di possibilità di accoglimento, ma che comportano un ingiustificato aggravio di lavoro per le già oberate Corti di Appello, divenute il vero imbuto della giurisdizione.

Completa il quadro delle criticità la marcata disomogeneità a livello nazionale sulla prescrizione, con alcune realtà territoriali nelle quali il tasso di prescrizione raggiunge livelli davvero allarmanti che dovrebbero indurre a una seria analisi delle ragioni che l'hanno determinato anche per calibrare i necessari interventi e che disegnano una geografia a macchia di leopardo, per la quale è evidente il rischio della violazione sostanziale del principio di uguaglianza e di quello di obbligatorietà dell'azione penale.

La soluzione adottata con la recentissima riforma ha sollevato forti critiche, comprese quelle provenienti da una gran parte della Magistratura che, però, le ha essenzialmente ancorate alla necessità di una contestuale riforma complessiva del processo penale proprio in direzione della garanzia della ragionevole durata del processo.

E d'altra parte, una contestazione tout court della novella sarebbe apparsa quantomeno incoerente con le richieste che per anni e sino a pochissimo tempo fa la Magistratura associata ha formulato per la interruzione della prescrizione a decorrere addirittura dal rinvio a giudizio.

Ma, a prescindere dagli sviluppi che il dibattito politico avrà per effetto della posticipazione dell'entrata in vigore della riforma, va ricordato che è diffusa l'idea che il problema si possa risolvere distinguendo tra prescrizione del reato, definita "sostanziale" e prescrizione dell'azione penale o "processuale".

La prima tutelerebbe gli interessi che stanno tradizionalmente alla base dell'istituto e la seconda sarebbe funzionale alla ragionevole durata del processo.

Ovviamente, anche la prescrizione processuale avrebbe il medesimo effetto estintivo della prescrizione sostanziale, ponendo fine al processo e vanificando l'attività svolta, ma il tempo della sua maturazione sarebbe quantificato non già sulla base di un unico segmento temporale che va dalla data di commissione del reato sino alla sentenza definitiva, ma in relazione ai tempi medi di definizione di ogni singola fase processuale.

Non mancano tuttavia alcuni rilievi.

Innanzitutto, la quantificazione preventiva del tempo per il quale la durata del processo diventa irragionevole, che sta alla base della proposta, non sembra tenere conto del fatto che la sua individuazione presuppone il concreto esame della specifica vicenda e si fonda non già e non solo sul titolo del reato ma su altri parametri, come il numero delle imputazioni e degli imputati, l'entità delle prove, ecc., con la conseguenza che la predeterminazione ex ante di termini potrebbe farli risultare troppo ampi in alcuni casi e troppo brevi in altri.

Sotto altro profilo va osservato che non è affatto detto che la estinzione del processo sia l'unico rimedio idoneo a tutelare l'imputato contro la durata eccessiva del processo, posto che il sacrificio che ne deriva per l'efficienza del processo così come per i diritti delle vittime che subirebbero un'irrimediabile lesione, non sono di poco conto e non va sottovalutato, nell'ottica del bilanciamento, il dispendio inutile di risorse e il pregiudizio che potrebbe derivarne all'imputato innocente che per evidenti ragioni non rinuncerebbe facilmente alla prescrizione e si precluderebbe così la possibilità di vedere accertata l'innocenza.

Le criticità emergenti dalla prescrizione processuale hanno indotto a elaborare altre possibili forme di tutela contro la irragionevole durata del processo, mutuate dalla esperienza di altri Paesi europei, che, mantenendo la distinzione concettuale con la prescrizione sostanziale la cui maturazione dovrebbe essere interrotta definitivamente dopo l'esercizio dell'azione penale, é stata da alcuni individuata in una riduzione della pena in caso di condanna, in misura variabile a seconda della entità del superamento del termine di durata ragionevole, riservando una piena tutela risarcitoria alle ipotesi di assoluzione.

In tal modo, si assicurerebbe tutela alle esigenze sottese al processo penale, evitando i pericolosi effetti collaterali che si determinerebbero per effetto della estinzione del processo.

Quale che sarà l'esito del dibattito politico non v'é dubbio che i gravi problemi determinati dall'attuale disciplina rendono necessaria l'adozione di una diversa regolamentazione che assicuri tutela effettiva ed efficace ai plurimi interessi in gioco, quasi tutti di rilevanza costituzionale.

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I risultati positivi conseguiti tra tante difficoltà nell’anno giudiziario concluso sono un buon auspicio per quello che ci apprestiamo a inaugurare, che si preannuncia pieno di impegni e denso di incognite.

Nella parte conclusiva del mio intervento dello scorso anno avevo segnalato che il processo di cambiamento dovuto alla incalzante velocità delle innovazioni e al dinamismo dei diritti in una società in continua trasformazione avrebbe chiesto anche alla Magistratura un impegno più intenso.

Sono considerazioni che conservano piena attualità nell’attuale contesto storico, nel quale, peraltro, crescono ansia e incertezza che generano paura per il futuro e indirizzano al ripiegamento verso il passato.

Zygmunt Bauman afferma che “abbiamo invertito la rotta e navighiamo a ritroso”.

E' l'epoca che il sociologo polacco definisce della “retrotopia”, perché il futuro, con la sua incertezza e la sua inaffidabilità, non è più il luogo della speranza ma é divenuto la sede dell’incubo e della paura; paura di perdere il lavoro, paura di perdere i beni, paura di perdere lo status sociale, paura che le nuove generazioni non abbiano prospettive.

Le criticità generate dalla globalizzazione alimentano il ritorno alla dimensione nazionale, all’interno della quale il singolo cerca l’affermazione della propria individualità nella società.

All’aspettativa forse un po' utopistica di una crescita illimitata, di un processo di emancipazione collettiva e all'attesa fideistica di un futuro proiettato in una dimensione transnazionale ma divenuto illusorio e incapace di alimentare spinte positive, si sostituisce, quasi in modo istintivo, la fiducia in un passato ritenuto rassicurante e unica prospettiva.

Non si guarda ai beni comuni come espressione dell’interesse collettivo, ma riaffiorano l’individualismo e l'egoismo, si accantona il valore della solidarietà che costituisce il presupposto elementare della convivenza civile, si abbandona il senso della comunità.

"Sentirsi comunità", ha detto nel discorso di fine anno il Presidente della Repubblica, "significa condividere valori, prospettive, diritti e doveri".

Emergono, invece, le profonde contraddizioni di un sistema costruito su una dimensione europea a ogni livello, giuridico, economico e organizzativo, ma nel quale cresce la spinta per adottare regole che tutelino localismi e particolarismi.

L'incertezza e la crisi della fiducia nel futuro alimentano il risentimento e l'acredine, amplificano l'intolleranza testimoniata da un crescente e diffuso ricorso al linguaggio dell'odio e fanno riemergere quella componente violenta che Hobbes riteneva essere  latente nell'uomo e solo nascosta ma non eliminata dalla civilizzazione.

Ma la crisi investe anche la politica e la sua funzione generale: le leggi sono spesso inadeguate alla efficace regolazione dei rapporti, che quindi viene delegata alla giurisdizione.

Diventa, quindi, indispensabile un processo globale di recupero della fiducia, al quale può e deve contribuire la Magistratura.

Nell'architettura costituzionale la Magistratura svolge la funzione di tutela dei diritti e di controllo di legalità.

Per assolvere in modo efficace al suo ruolo la Costituzione prevede l'autonomia e l'indipendenza della Magistratura, strumento di garanzia dell'uguaglianza dei cittadini e non già privilegio individuale: principi la cui importanza per la democrazia può essere colta volgendo lo sguardo verso Paesi non lontani dal nostro in cui sono calpestati.

La funzione svolta dalla Magistratura rende indispensabile che essa goda della fiducia da parte della collettività: fiducia nella competenza tecnica, nell'onestà, nel rigore intellettuale, nell'imparzialità di giudizio.

Ed é anche per questo i magistrati devono evitare ogni forma di collateralismo con il potere politico e con qualsiasi altra forma di potere, e anche soltanto l'apparenza di esso: il mero sospetto della mancanza di indipendenza o di un possibile condizionamento esterno é sufficiente ad alimentare la perdita di fiducia nell'azione della Magistratura e indebolirne il ruolo di garanzia.

E una magistratura debole non è in grado di assicurare tutela effettiva ai diritti individuali, non é in grado di affermare i diritti dei cittadini nei confronti del potere, che alla fine é la misura del tasso di democrazia di un Paese.

Fiducia ma non anche consenso, che invece fonda la legittimazione democratica delle funzioni politiche di governo e che é concettualmente estraneo all'esercizio della giurisdizione.

Il dissenso rispetto alle decisioni giudiziarie, così come la critica del loro contenuto, fanno parte della dialettica democratica e contribuiscono alla crescita culturale della giurisdizione.

Non sono accettabili, invece, il dileggio e l'insulto, cui purtroppo si è assistito anche di recente, che denotano insofferenza al controllo di legalità e si traducono in delegittimazione di un Potere dello Stato.

Scrive Luigi Ferrajoli che "deve pur esserci un giudice capace, per la sua indipendenza, di assolvere un cittadino in mancanza di prove della sua colpevolezza, anche quando il sovrano o la maggioranza della pubblica opinione ne chiedono la condanna, e di condannarlo in presenza di prove quando i medesimi poteri ne pretendono l'assoluzione".

Ma il consenso popolare non é neppure sufficiente a legittimare ogni atto politico di governo che incontra il limite invalicabile del rispetto dei diritti fondamentali, l'accertamento della cui violazione compete esclusivamente alla Magistratura.

Il consenso popolare non può rendere lecito un atto contrario ai diritti costituzionalmente garantiti che sono tutelabili anche nei confronti delle contingenti maggioranze politiche e quand'anche la loro violazione fosse conseguenza di un atto politico approvato all’unanimità.

Ancora Ferrajoli ricorda che "la prima regola di ogni patto costituzionale sulla convivenza civile non é infatti che su tutto si deve decidere a maggioranza, ma che non su tutto si può decidere [o non decidere], neanche a maggioranza".

L'art. 1 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, che il mese scorso ha celebrato il settantesimo anniversario, prevede che "Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza".

E alla dignità umana é dedicato l'incipit dell'art. 3 della Costituzione italiana, che, ancor prima dell'elencazione delle cause di non discriminazione, lo declina nella forma della "dignità sociale", saldandolo con l'obbligo istituzionale di permanente opera di trasformazione contenuto nel secondo comma e consegnando una lettura unitaria dell'intera disposizione che va al di là della tradizionale dialettica tra uguaglianza formale e uguaglianza sostanziale e nella quale libertà e eguaglianza trovano sintesi nella dignità.

Alla dignità si riferiscono anche gli articoli 36 e 41 della Costituzione, istaurando un armonioso gioco di rinvii tra principi.

La dignità è il vero patrimonio del costituzionalismo postbellico che scrive il nuovo statuto della persona e il nuovo assetto dei doveri costituzionali.

Secondo Stefano Rodotà “la costituzionalizzazione della persona, in un quadro d’insieme caratterizzato dalla centralità dei diritti fondamentali, individua un criterio interpretativo e ricostruttivo dell’intero sistema istituzionale, consentendo d’individuare in maniera dinamica le situazioni di diritto alle quali deve corrispondere il riconoscimento di un bene comune. In altri termini, la costituzionalizzazione della persona eccede il riconoscimento di singoli, specifici diritti”.

Anche nei periodi più bui della storia del nostro Paese la Magistratura ha esercitato con straordinaria efficacia il ruolo che la Costituzione le assegna.

E, come ha ricordato il Presidente Mattarella "La nostra Costituzione, per fortuna, è riuscita a superare momenti difficili, riesce sempre a superare momenti difficili, anche perché ha anche alcuni elementi che la difendono".

Lo scenario del terzo millennio pone la Magistratura dinanzi a una difficile sfida per la tutela dei diritti, che, come scrive Rodotà, "non sono acquisiti una volta per tutte sono sempre insidiati diventano essi stessi strumenti di lotta per i diritti".

E’ una nuova sfida che la Magistratura ancora una volta deve raccogliere e non può permettersi di perdere.

26 gennaio 2019