Relazione del segretario generale

Maria Cristina Ornano

Anche a nome del Coordinamento nazionale saluto e do il benvenuto a tutti i partecipanti e ringrazio tutti coloro che si sono resi disponibili ad animare i tavoli che si alterneranno in queste giornate. Tra questi, particolare gratitudine vorrei esprimere a tutti i nostri ospiti esterni che hanno accettato l’invito a partecipare e contribuire ai nostri lavori.

Un ringraziamento particolare vai poi a Francesco Menditto che presiederà i lavori dell’assemblea nella giornata di domenica ed ai colleghi del comitato organizzatore di AreaDG Roma che ci hanno validamente coadiuvato nell’organizzazione del Congresso.

 

 

Per le contingenze della vita, mai come in questo caso davvero inimmaginabili, il nostro Secondo Congresso si celebra nel pieno di una crisi che non esitiamo a definire la più drammatica nella storia della magistratura italiana del dopoguerra.

Le recenti indagini su gravissimi fatti di corruzione e altri delitti che coinvolgono diversi magistrati, da ultimo quelle riguardanti alcuni componenti uscenti e attuali del Consiglio Superiore, al di là del loro esito, arrecano un vulnus gravissimo alla credibilità dell’Istituzione giudiziaria e dimostrano la dirompente, quanto drammatica, attualità e centralità della questione morale in magistratura.

Questa non si esaurisce nei fatti, pur gravissimi e ormai purtroppo non più tanto rari, di corruzione (tale anche in senso penalistico) che riguardano singoli magistrati, i quali, violando il giuramento sulla Costituzione, hanno venduto la loro funzione; ma investe l’istituzione giudiziaria al più alto livello, ossia il Consiglio Superiore della Magistratura, ove per la prima volta nella storia è accaduto che uno dei componenti togati si sia dimesso per delle indagini che lo coinvolgevano nella sua funzione di consigliere superiore e che hanno attinto, a vario titolo, altri quattro consiglieri superiori in carica, i quali, con un’atipica iniziativa, si sono “autosospesi” dalle funzioni. In questa indagine sarebbero coinvolti anche un consigliere uscente, ex presidente dell’ANM, un parlamentare, ex sottosegretario alla Giustizia del governo Renzi ed eletto alla Camera nelle liste del PD pur essendo figura di riferimento della destra giudiziaria, un ex ministro, alcuni imprenditori noti alle cronache giudiziarie.

Ciò che già è emerso – e che, al di là della rilevanza penale dei fatti, costituisce a nostro giudizio il dato politico di primario rilievo – è che lobby trasversali composte da politici disinvolti e spregiudicati imprenditori (alcuni pure indagati da una di quelle stesse Procure), con il coinvolgimento di magistrati, hanno messo a punto un tentativo estremamente pervasivo di eterodirezione e di condizionamento esterno dell’autogoverno per le nomine di alcune nevralgiche Procure della Repubblica. Un fatto che, se confermato, sarebbe di una gravità inaudita e che, come è già stato da molti ricordato, ci riconduce al solo precedente della P2.

Ridurre questa vicenda ad un fatto illecito che riguarda singoli magistrati o a una spartizione correntizia – di per sé grave e intollerabile – non vale a coglierne la realtà e la portata; né questa vicenda può essere liquidata con le false quanto strumentali banalizzazioni del “così fan tutti”.

Intanto perché così non è. E lo ha dimostrato, in questi primi nove mesi di consiliatura, la nostra componente in CSM con un lavoro fermo sui principi e sulle regole che ci ha costretto spesso ad un ruolo di testimonianza di cui andiamo fieri perché è stato il prezzo della nostra coerenza. Ma anche perché minimizzare, banalizzare o mettere la polvere sotto il tappeto non ci rende capaci di affrontare il problema politico di fondo e di cambiare realmente pagina.

La circostanza che siano gli stessi magistrati a indagare, processare e sovente condannare altri magistrati corrotti e, quindi, il fatto che il sistema giudiziario italiano abbia al suo interno gli anticorpi, non ci conforta e non ci soddisfa.

Non ci conforta perché quando un magistrato è corrotto ad essere messa in gioco non è solo la sua credibilità, ma quella della magistratura tutta e ad essere danneggiata non è solo quest’ultima, ma la stessa Democrazia e la sua tenuta, la quale ha nell’Istituzione giudiziaria, autonoma e indipendente, un suo irrinunciabile e fondamentale pilastro.

Non ci soddisfa e non ci basta perché se questi tentativi ci sono stati e hanno dimostrato una tale capacità di penetrazione nell’istituzione giudiziaria fino al più alto livello di coinvolgimento degli uomini che la incarnano, questo non può sbrigativamente liquidarsi come una vicenda di corruzione – in senso ampio – che riguarda solo i singoli che vi sono coinvolti.

Il recupero dell’autorevolezza dell’Istituzione giudiziaria può avvenire solo attraverso la riaffermazione dei valori della verità e dell’interesse generale, che richiedono prima di tutto da parte della magistratura, tutta e unitariamente, la capacità di guardare al proprio interno e confrontarsi senza infingimenti sulla questione morale.

Onestà, correttezza e probità sono requisiti intrinseci alla funzione pubblica che i magistrati svolgono, in assenza delle quali non si è degni di rivestirla. Per il Magistrato non può esservi una moralità ad intermittenza. La moralità non può esaurirsi nella stolida declamazione del suo astratto valore, ma impone il suo inveramento attraverso l’adozione di riforme che assicurino trasparenza e leggibilità delle decisioni del Consiglio Superiore, il recupero del ruolo fondativo dell’associazionismo giudiziario, l’osservanza del codice etico da parte di tutti i magistrati.

Senza ipocrisie, deve riconoscersi che quanto accaduto e quanto sarebbe potuto accadere nelle nomine, è stato possibile per l’esistenza di logiche e pratiche di scambio nell’autogoverno. Sullo scambio, infatti, si fondava l’accordo per condizionare le nomine in importanti uffici giudiziari. Questo in tanti si sospettava e questo è esattamente quanto è emerso.

Occorre, allora, attuare alcune riforme che sono ormai ineludibili. Le quali, a nostro avviso, non sono certamente quelle previste nel disegno di legge costituzionale sul CSM di cui pure, e non casualmente, all’indomani delle gravi vicende che hanno investito l’organo di autogoverno è stata invocata da componenti dell’Esecutivo l’approvazione.

Siamo, infatti, in presenza di una riforma che ha i suoi cardini: nella dicotomia tra giudicanti e requirenti, attraverso la previsione di due distinti CSM con una riduzione del peso della componente togata a vantaggio di quella laica e di carriere separate ad iniziare dall’accesso; nella modifica dell’art. 107 Cost. nella parte in cui disegna una magistratura orizzontale, aprendo così la strada alla gerarchizzazione della magistratura giudicante; infine, nella dirompente modifica delle modalità di esercizio dell’azione penale, non più obbligatoria, ma consentita “nei casi e nei modi previsti dalla legge”.

Si tratta di una proposta che non fatica a tradire il suo vero obiettivo che è quello di “normalizzazione” della magistratura e di depotenziamento della sua autonomia e indipendenza. Essa, poi, lungi dall’assicurare maggiori garanzie per l’indagato e la parità delle armi tra accusa e difesa, che costituisce uno degli obiettivi dichiarati della riforma, finirebbe col fare del Pubblico Ministero un superpoliziotto controllato dall’Esecutivo e, comunque, potentissimo, perché non soggetto al controllo della giurisdizione e non più parte della sua cultura.

L’invocazione dell’approvazione di tale riforma nulla ha in realtà a che vedere con la questione morale, perché certo non varrebbe a rendere l’ autogoverno più impermeabile rispetto ai tentativi di etero direzione e di condizionamento esterno, né darebbe di certo maggiore trasparenza nella selezione dei dirigenti e nell’assegnazione degli incarichi, ma semmai produrrebbe una maggiore permeabilità, atteso il più alto tasso di politicizzazione dei due CSM che essa postula.

E se la legge elettorale attuale favorisce proprio i localismi e l’accentramento di potere che sono uno dei fattori di crisi del sistema ( e per questo noi da tempo invochiamo il ritorno al sistema proporzionale per liste concorrenti), sarebbe rimedio certo peggiore del male l’adozione del sorteggio quale metodo di selezione dei consiglieri togati, il quale mentre non garantisce alcunché sul piano del recupero dell’impermeabilità dell’istituzione, costituisce una rinuncia al principio di rappresentanza dei magistrati in aperta violazione della Costituzione.

Ciò che va oggi rivendicato è il ruolo costituzionale del Consiglio Superiore quale organo che concorre a disegnare la politica giudiziaria e di governo della magistratura e, più in generale, dell’intero circuito dell’autogoverno, che impone ai consiglieri eletti di agire esclusivamente quali rappresentanti dell’istituzione consiliare e non quale longa manus dei gruppi nell’autogoverno .

Ma nel contempo è urgente e non procrastinabile introdurre una procedimentalizzazione delle nomine, che guidi l’esercizio della discrezionalità; ad esempio, assicurando nella calendarizzazione delle pratiche il rigoroso rispetto cronologico, prevedendo la pubblicità delle pratiche di quinta commissione in tutti i dati ostensibili, a partire dai curricula e dai progetti organizzativi, svolgendo una approfondita istruttoria sui profili e l’audizione degli aspiranti agli uffici direttivi, la vincolatività delle specializzazioni, valorizzazione delle fasce di anzianità, nuovi meccanismi di selezione dei semidirettivi affidando la relativa istruttoria ad una commissione diversa da quella per i direttivi, così assicurando da un lato, trasparenza e dall’altra un limite a quel potere discrezionale del Consiglio che, al momento attuale, sottratto a parametri certi, rende possibili pratiche spartitorie, consente un arbitrio delle maggioranze ed espone ogni decisione ad attacchi delegittimanti, anche quando infondati e strumentali, con un grave vulnus all’autorevolezza del Consiglio.

Dobbiamo poi con franchezza riconoscere che la riforma del 2006 ha costituito un formidabile volano al carrierismo in magistratura. La temporaneità degli uffici direttivi, ha aperto la strada ad un salutare rinnovamento della dirigenza giudiziaria, ma, nel tentativo di introdurre indicatori attitudinali, ha anche disegnato percorsi verso la dirigenza e l’assegnazione di incarichi che, per l’eterogenesi dei fini, hanno amplificato le spinte carrieristiche, favorendo l’uso anche strumentale degli incarichi in funzione della costruzione dei profili idonei: le famose medagliette, che restano sul bavero senza che nessuno, complice un sistema di valutazione della professionalità che non è riuscito nei suoi obiettivi, ne verifichi il reale merito.

Anche da qui occorre ripartire se vogliamo risanare e dare nuova vita all’autogoverno, recuperando anzitutto il senso e l’orgoglio della nostra funzione, di qualunque funzione giudiziaria, che deriva, come stabilisce l’art. 107 comma 3 Cost. che non a caso si vorrebbe sopprimere, dal nostro essere un potere diffuso ed orizzontale, liberandoci dall’ansia della rincorsa al direttivo o semidirettivo e agli incarichi che ne facilitano l’accesso.

Ma è necessario che i magistrati osservino scrupolosamente il codice etico della nostra Associazione: i consiglieri, interpretando con responsabilità l’alto ruolo istituzionale e in primis astenendosi da pratiche clientelari (provengano esse dai singoli o dai gruppi); i magistrati, dismettendo il cattivo costume praticato non da pochi di perorare presso i consiglieri, siano togati o laici, protezione e attenzioni sulle proprie domande o pratiche, evitando così di alimentare quel circuito clientelare e carrieristico che è quanto di più dannoso possa esservi per l’autogoverno.

La Scuola della Magistratura come l’Associazione Nazionale Magistrati possono e devono svolgere un ruolo decisivo nella costruzione di quel bagaglio etico e deontologico che passa anzitutto dalla consapevolezza del proprio ruolo sociale e del portato valoriale delle scelte che costantemente facciamo nell’interpretazione e nell’applicazione della legge, e senza cui la nostra professione si riduce, nella migliore delle ipotesi, a vuoto tecnicismo e arida burocrazia.

Noi riteniamo che per uscire dal guado occorra più politica associativa, il rinnovamento ed il rilancio dell’associazionismo giudiziario.

In queste convulse giornate molti hanno attribuito all’esistenza delle correnti della magistratura associata la principale causa dei fatti che ci hanno travolto. Ma è una lettura superficiale, quando non capziosa. In realtà in questa vicenda, come in altre analoghe di spartizioni delle nomine, l’associazionismo è stato strumentalizzato e usato per fini estranei e privati, con ciò rivelando un dato, ossia che non sono le correnti e l’associazionismo giudiziario ad essere forti, ma alcune lobby che se ne sono servite per propri fini.

Questa debolezza dell’associazionismo giudiziario, è il risultato di una crisi che ormai da tempo ha colpito i corpi intermedi, partiti tradizionali, sindacati, gruppi associati, oggetto di una campagna di delegittimazione che li addita all’ opinione pubblica come centri di potere dediti alla cura di interessi particolari contro l’interesse generale.

Come gli altri corpi intermedi l’associazionismo giudiziario esce fortemente indebolito da questi attacchi. È diffuso tra i magistrati un senso di sfiducia verso l’associazionismo giudiziario, e l’opinione pubblica non riesce a discernere tra le correnti e la loro degenerazione, ossia il correntismo.

Ciò è in sintonia con lo spirito dei tempi, ma è ascrivibile anche ed in larga parte al fatto che l’associazionismo ha dimenticato se stesso e le nobili ragioni per cui è nato, perché dalla difesa biecamente corporativa che è cosa diversa dal reclamare giuste e sostenibili condizioni di lavoro, si è ormai passati al microcorporativismo, dove a prevalere non sono più le istanze dei gruppi associati, ma di alcuni dei singoli che lo compongono a detrimento dell’interesse generale e a discapito delle legittime aspettative di altri. Questo microcorporativismo sconosce il portato etico della professione del magistrato e spinge a ricercare spasmodicamente incarichi, meglio se pagati, vantaggi, convenienze, utilità, protezioni – si abbia torto o ragione poco cambia – ricorrendo a pratiche clientelari che trovano il luogo di elezione proprio nel Consiglio Superiore.

Solo recuperando il senso profondo della nostra esperienza associativa – quell’idea che non muore – potremmo restituirle linfa e così risanare e dare nuova vita all’Autogoverno.

Faccia l’associazione ciò per cui è nata e per cui esistono in un sistema democratico i corpi intermedi: sia mediazione e cerniera tra la base e l’autogoverno, realizzando al suo interno quella sintesi che risponde all’interesse generale; sia luogo di elaborazione culturale; sia strumento di selezione, secondo i canoni dell’etica e della competenza, per l’accesso all’autogoverno contrastando così gli effetti perversi che la legge elettorale in vigore ha prodotto.

L’autogoverno è un bene che appartiene a tutti i magistrati e tutti devono difenderlo e rispettarlo. Non solo i consiglieri, ma anche i magistrati.

La rigorosa osservanza del codice etico dell’Associazione impone un rifiuto netto e intransigente delle pratiche clientelari. I consiglieri svolgano il loro ruolo istituzionale non aderendo a tali sollecitazioni, sia che vengano da singoli, sia che vengano dai gruppi.

Occorre, ora più che mai, una difesa compatta e intransigente dell’autogoverno e della sua funzione costituzionale, dell’autonomia e indipendenza della magistratura, per affrontare la complessità del presente e le difficoltà che non fatichiamo a intravedere nel prossimo futuro.

Le elezioni europee appena concluse ci consegnano una scacchiera dell’Unione Europea non ancora del tutto rovesciata, ma fortemente in bilico, esattamente come è nell’immagine che abbiamo scelto per il manifesto del nostro secondo Congresso nazionale, per illustrare questo particolare momento storico.

Si affermano, infatti, sulla scena politica europea e all’interno degli stati dell’Unione forze dichiaratamente razziste e xenofobe, orgogliosamente nazionaliste, populiste e sovraniste, che di fronte ad un mondo globale e interconnesso e, tuttavia, caratterizzato da sempre più marcate, diffuse e profonde diseguaglianze, concepiscono l’Europa non più come spazio comune – fisico, ideale e politico – di libertà, solidarietà e giustizia, ma come una sommatoria di interessi governata da egoismi e da logiche mercantili e di scambio e la cui offerta politica è tutta polarizzata sullo stato-nazione, tanto crescentemente muscolare quanto vulnerabile.

Tutto ciò si innesta ed è in parte conseguenza della crisi in atto della democrazia rappresentativa.

La democrazia rappresentativa si fonda su un processo di identificazione del singolo e dei singoli in un partito o gruppo politico organizzato, i quali lo delegano a rappresentare in Parlamento i propri interessi sul presupposto che quel partito o gruppo rappresenterà al meglio i loro interessi. Il partito diviene quel corpo intermedio che lega gli elettori agli eletti, media le istanze dalla base al centro e ne definisce la sintesi politica, che trova o aspira a trovare la sua attuazione nel confronto parlamentare.

Nell’esperienza del XXI secolo e in Italia, specie dal secondo dopoguerra, questo processo di identificazione si è giocato lungo due assi, quello economico nella contrapposizione tra il modello neoliberista e quello dello stato sociale di ispirazione keynesiana, e quello politico culturale nella contrapposizione tra l’offerta politica della sinistra liberale e quella di ispirazione conservatrice.

Nel mondo occidentale viviamo oggi l’esito di processi macroeconomici e globali che si sono andati sviluppando a partire dagli anni ottanta del Novecento, i quali hanno fortemente impoverito le nostre società, eroso ciò che restava del welfare, indotto sentimenti di esclusione e di incertezza anche nei più fortunati, dando vita ad una situazione di insicurezza che è reale e diffusa e che ha indotto nelle persone sentimenti di sfiducia verso i partiti tradizionali, che non sono stati più visti capaci di rappresentare adeguatamente i loro interessi.

Sull’altro asse, quei vasti blocchi di società che non si sono riconosciuti nei valori della cultura della sinistra liberale affermatisi attraverso le conquiste realizzate a partire dagli anni sessanta e settanta sul terreno dei diritti sociali e civili ( salute, multiculturalismo, sessualità, parità di genere, gender, etc. ), si sono sentiti parimenti esclusi e non rappresentati da quei partiti che di tali valori si sono fatti promotori.

E non stupisce, allora, il riemergere sulla scena politica, anche nel nostro paese, di forze dichiaratamente fasciste e xenofobe, le quali si sono fatte latrici di questa cultura .

Come non è un caso che proprio in Italia il 29 marzo scorso si sia tenuto a Verona il XIII Congresso Mondiale delle Famiglie (CWF), patrocinato dal Ministero della Famiglia e della Disabilità; al quale hanno partecipato alcuni Ministri della Repubblica e con il quale si è data visibilità a esponenti politici e attivisti di organizzazioni, operanti in Italia e all'estero, i quali, sostenendo di voler tutelare la famiglia tradizionale: propugnano la subalternità delle donne rispetto agli uomini; le relegano in un umiliante ruolo riproduttivo che non contempla il diritto alla maternità consapevole; non riconoscono i diritti delle “nuove famiglie”; considerano l’omosessualità come una devianza da contrastare o una patologia da curare anche forzatamente; non riconoscono i diritti LGBTQI, il divorzio, gli studi di genere; considerano l’immigrazione come fattore di disordine sociale, prima ancora che economico.

Il progetto di società e di relazioni umane che questi movimenti sono impegnati a realizzare, anche attraverso concrete azioni politiche all'interno dei parlamenti nazionali, è incompatibile con i principi dello Stato di diritto e con la nostra Costituzione che riconosce e tutela i diritti e le libertà fondamentali degli esseri umani postulandone la pari dignità, l’eguaglianza e vietando ogni forma di discriminazione, disegna inoltre un modello di famiglia, di società e di relazioni umane inclusivo, accogliente e rispettoso delle persone: un modello che non si limita ad ammettere la diversità, ma la contempla come una ricchezza.

Ora nella crisi della democrazia che si è così innescata, lo stato nazione è divenuto sovente il perimetro non solo fisico, ma anche ideale, nel quale si è potuto affermare un nuovo processo di identificazione tra gruppi politici – vecchi, nuovi e riciclati – e vasti blocchi di “esclusi” o di “lasciati indietro”. Uno stato chiuso nei suoi confini, che eleva barriere a difesa delle proprie frontiere e declina la cittadinanza come nazionalità, fornisce un’offerta politica a portata di mano nella sua semplicità. Questa offerta politica ha sfruttato l’ insicurezza reale e diffusa per promuovere strumentalmente – anche grazie a portati simbolici fortemente evocativi (lo straniero, il diverso, il deviante, il clandestino, il povero) – la cosiddetta “insicurezza percepita”, un mood, un sentimento assai più pervasivo di quello generato dall’insicurezza reale.

Ed è così che nel nostro Paese e nel mondo occidentale, il tema della sicurezza e della paura è entrato prepotentemente al centro dell’agenda politica. Negli ultimi trenta anni abbiamo assistito alla sopravvalutazione dei temi del crimine e della sicurezza, divenuti ormai centrali nell’offerta politica, nella quale, invece, sono sempre più assenti la sicurezza sociale e quei temi che costituiscono le vere emergenze sociali: lo sviluppo, il sostegno alle famiglie e alle persone in difficoltà, il lavoro e la sicurezza sul lavoro, il precariato diffuso, la salute delle persone, la sicurezza ambientale, la qualità della vita, la politica della casa, la scuola, etc.

Ma a porre in seria e grave crisi la democrazia rappresentativa è stato il processo di disintermediazione che ha eroso non l’organizzazione partito in quanto tale, ma il partito di massa, da tempo soppiantato dal partito del leader grazie anche all’innovazione tecnologica. Media, piattaforme, algoritmi e social media consentono un contatto diretto tra la persona ed il leader, creando così l’illusione di un nuovo e più autentico circuito democratico. L’illusione, perché l’assenza di intermediazione e, quindi, di luoghi di autentico confronto, unito alla diffusa incultura generale e politica, alla delegittimazione delle Istituzioni, (financo delle più alte Istituzioni dello Stato), delle competenze e dei saperi, finisce per alimentare una “politica circolare”, nella quale la sollecitazione a determinate scelte politiche proviene da un’indistinta base, cui si risponde con la demagogia, il populismo, la propaganda, che sono la scorciatoia per ottenere consenso, evitando risposte complesse, e perciò impopolari, a problemi complessi come quelli che la società contemporanea vive e deve affrontare. Nei fatti ciò ha generato un sistema connotato da un basso tasso di democrazia e di elevata e diffusa irresponsabilità politica, perché il leader giustifica le sue scelte politiche in nome di una asserita rappresentanza democratica costituita però da una base indistinta, spesso non quantificabile e mai controllabile, cui è fin troppo facile attribuire la responsabilità politica ove le scelte si rivelino fallimentari. Una politica che non è più sintesi di ideologie, culture, sensibilità e visioni differenti, ma una perenne rincorsa alla asserita volontà popolare che trova linfa nel sempre più diffuso hate speech, in un linguaggio di odio che permea sempre di più le relazioni pubbliche a tutti i livelli e, nel contempo, quell’odio alimenta.

Dalla crisi della democrazia rappresentativa si è generata nel nostro paese l’esperienza del governo “giallo verde”

Da tempo anche nel nostro Paese è, infatti, in atto una campagna di delegittimazione dei corpi intermedi, partiti tradizionali, sindacati, gruppi associati, additati alla opinione pubblica come centri di potere dediti alla cura di interessi particolari contro l’interesse generale. Questi argomenti sono stati utilizzati e sfruttati da entrambi i partiti oggi al governo.

La Lega, partito di matrice leaderistica, declina la propria offerta politica in chiave nazionalista, sovranista, populista, razzista e xenofoba, con un ricorso ai media e ai social diverso da quello dell’alleato ma altrettanto efficace. Il M5s, non esente anch’esso da spinte leaderistiche, trova la propria legittimazione nella base della piattaforma Rousseau e su un consenso tutto giocato sul terreno di una politica populista che si alimenta, al pari di quanto fa quella del suo alleato, della contrapposizione a presunti centri di potere ed alla casta, asseritamente a vantaggio della variegata categoria degli esclusi, degli scontenti, dei delusi, alimentata , anche qui, dal richiamo ai temi della sicurezza e della frontiera.

Nel nostro Paese abbiamo assistito ad un fenomeno nuovo e del tutto inedito, di un “contratto di governo”, che a veder bene pare un non sense politico. Perché se la politica è mediazione e sintesi anche tra posizioni distanti e diverse, non è dato comprendere come questa possa trovare spazio nella logica del do ut des, del sinallagma che sta alla base di un contratto, che è pure cosa diversa da un “patto” di governo.

Il risultato è quello di una politica a “paso doble” in cui non v’è stata mai una sintesi, ma al più, e solo in alcuni casi, una reciproca soddisfazione degli alleati di governo. Con una netta prevalenza, tuttavia, delle politiche della Lega, le quali hanno dominato l’agenda politica di questo primo anno di legislatura.

L’affermazione di queste forze populiste che fanno ampio ricorso alla cosiddetta democrazia digitale ed alla narrazione della politica dell’anticasta, hanno aggravato quel processo di disintermediazione, in verità da tempo in atto, che investe direttamente il Parlamento, che appare essere sempre meno quel luogo, disegnato dalla Costituzione repubblicana, di confronto e di sintesi tra le diverse opzioni politico-culturali, per assumere sempre più spesso un ruolo notarile di ratifica di decisioni già prese dal Governo o, peggio, in taluni casi, altrove. Un luogo nel quale opposizioni e minoranze sono totalmente esautorate dalle maggioranze, le quali non si confrontano con le minoranze alla ricerca di una sintesi, come si conviene in una democrazia, ma perseguono e danno attuazione al programma del Governo.

Assistiamo così nel nostro Paese ad una progressiva erosione dei presidi democratici attuata in forme subdole e, proprio perché meno dirette e meno riconoscibili, più pervasive e, perciò, più pericolose.

L’opzione securitaria porta con sé un progetto ed una visione di società in cui noi magistrati progressisti non possiamo riconoscerci, perché è un progetto che postula una società chiusa, culturalmente monolitica che non accetta il confronto e la relazione con la diversità, che legittima le disparità, penalizza e criminalizza la condizione delle persone, ricorre in via di elezione allo strumento penale, alla criminalizzazione ed alla carcerizzazione, e finisce così per espandere i poteri dello stato sovrano a discapito delle persone, dei loro diritti e delle loro libertà, in territori esterni, con esiti oggi non tutti prevedibili, ma di cui quelli già visibili inquietano profondamente.

Viviamo una stagione nella quale assistiamo ad un continuo attacco ai diritti fondamentali della persona, alla legittimazione delle diseguaglianze e delle disparità, al tentativo di ribaltare il sistema della gerarchia dei principi e dei valori segnato dalla nostra Costituzione, messo in atto da una politica che fatica a riconoscere l’universalità dei diritti fondamentali e del principio di eguaglianza tra le persone, vive con fastidio la cogenza degli obblighi che derivano dagli impegni e dai vincoli sovranazionali ed internazionali.

La nostra posizione, critica su buona parte delle politiche governative ad iniziare dal decreto sicurezza, all’autodifesa legittima, alla riforma dell’abbreviato fino ai vari disegni e progetti di legge, dal decreto sicurezza bis, al disegno di legge Pillon, alla riforma delle autonomie, non è frutto di una preconcetta contrarietà, né dell’aspirazione a fare da contraddittori del governo, ma dalla problematica compatibilità costituzionale di questi interventi normativi. Di fronte ai quali, come di fronte a comportamenti, da chiunque provenienti, posti in violazione di norme internazionali e interne poste a tutela della vita e della integrità delle persone, che mirano a limitare il soccorso alle persone in difficoltà in mare e pretendono di affermare che la vita umana, solo perché di uno straniero extracomunitario privo di permesso di soggiorno, è materia negoziabile in funzione di un certo obiettivo politico, rivendichiamo come magistrati, proprio in ossequio alla funzione sociale che la Costituzione ci ha assegnato, il diritto e prima ancora il dovere, di intervenire nel dibattito pubblico su tutti i temi che riguardano la Giustizia e a difesa dei diritti e delle garanzie delle persone. Il diritto ed il dovere di interpretare le norme secondo legge e Costituzione in modo autonomo e indipendente senza subire le pressioni, gli attacchi e le violente aggressioni sui social cui i magistrati che non adottano provvedimenti graditi ad esponenti politici del Governo sono esposti.

È solo di qualche giorno fa l’ennesimo episodio di cui sono rimasti vittima magistrati toscani, rei di aver adottato provvedimenti non graditi al Ministro dell’Interno ed a seguito del quale è stata chiesta l’apertura di una pratica a tutela, secondo un cliché ormai consueto.

Le liste di proscrizione non ci spaventano. Perché ne faremo parte in tanti e nessuno sarà lasciato solo.

Continueremo ad intervenire nel pubblico dibattito sui temi della Giustizia e sui diritti con la serena convinzione che ciò che abbiamo sempre fatto, nel rispetto che il nostro ruolo istituzionale ci impone, non lede in alcun modo la nostra imparzialità, ma arricchisce il dibattito culturale con il nostro qualificato contributo.

A chi nella magistratura associata in una recente intervista ci ha accusato di “ fare politica” perché abbiamo assunto posizioni critiche verso provvedimenti governativi, rispondiamo che ciò non intacca neppure l’immagine della nostra imparzialità e terzietà perché ci rende leggibili e per questa via rende meglio verificabile anche il nostro lavoro. Ciò che temiamo non è questo asserito far politica: ci preoccupano invece i magistrati silenziosi e acquiescenti alla politica che però, poi, hanno incontri riservati con i politici; magari per discutere delle nomine del CSM. Questi comportamenti non ci appartengono e questi comportamenti noi deprechiamo perché sono essi e non la libera manifestazione del pensiero a danneggiare l’imparzialità della magistratura, la sua autonomia, la sua indipendenza.

Si profila all’orizzonte un progetto politico e di società che ci inquieta. Dopo la campagna contro gli extracomunitari è stata la volta dei poveri, ora è in atto la campagna di odio contro i rom. Si introducono zone rosse in cui si interdice l’accesso delle persone, sospinte lontano per la loro condizione. Non ci illudiamo, questo elenco non finirà qui.

La propaganda dell’insicurezza e della paura ha prodotto i suoi effetti se masse sempre più numerose di persone sono disponibili a negoziare la compressione di libertà e diritti in cambio di ciò che viene spacciato come il bene più prezioso, ossia la sicurezza, nell’illusoria convinzione che la privazione e la limitazione dei diritti e delle libertà dell’altro, specie se è un “ diverso”, è un migrante, un povero, un rom, un emarginato, un espulso dal mercato del lavoro, non riguardi anche se stessi e globalmente la società in cui vive.

Ci attendono tempi difficili e complicati, per affrontare i quali, nella crisi generale della democrazia rappresentativa, è indispensabile, per la tenuta dello Stato di diritto, una magistratura costituzionale forte, autorevole, indipendente ed autonoma.

Occorre perciò una difesa intransigente del nostro autogoverno e della magistratura.

Ma questa difesa passa necessariamente per il recupero della credibilità del nostro agire, a partire dai nostri comportamenti nelle sedi istituzionali.

Perché, come ha scritto Luigi Ferrajoli, la fonte di legittimazione della magistratura non è il consenso, ma essa risiede, oltre che nella natura della nostra funzione pubblica e nel ruolo di garanzia e di difesa dei diritti, proprio nella fiducia dei cittadini nelle nostre decisioni, nella nostra imparzialitá, nella nostra competenza tecnica e capacità di giudizio, nella nostra onestà e rigore intellettuale.

Dobbiamo essere consapevoli tutti che quanto è accaduto ha gravemente compromesso la fiducia dei cittadini in noi magistrati e nell’intera istituzione giudiziaria.

Non sono tempi di operazioni di piccolo cabotaggio, di difesa del proprio fortino e dei suoi privilegi. Perché è in gioco la tenuta dello Stato di diritto nella cui difesa è fondamentale il ruolo costituzionale della magistratura, per adempiere il quale è indispensabile che essa sia autonoma e indipendente.

È il momento della verità, dell’onestà e della responsabilità.

Perciò chi ha sbagliato ferendo così gravemente l’onore e la credibilità dell’Istituzione giudiziaria deve fare responsabilmente un passo indietro, si dimetta, senza indugi, evitando imbarazzi ed impasse istituzionali.

Riteniamo che altrettanto debba avvenire nei posti di rappresentanza dell’associazione e dei gruppi.

Chi resta, gli altri – tutti: consiglieri, magistrati, associati – devono essere consapevoli che quanto è accaduto ci ha condotti ad un punto di non ritorno, ma deve essere una ripartenza su rinnovate basi per un Consiglio Superiore che adempia all’alto compito che la Costituzione gli ha assegnato.

 

Con commozione, perché è il nostro secondo congresso, con emozione e gioia, perché questo è per noi un momento di confronto e di crescita, ma anche di festa (il congresso è anche questo), dichiaro aperti i lavori del Secondo Congresso di Area Democratica per la Giustizia e auguro a tutti noi buon lavoro e buona permanenza.