Le istituzioni europee e il ruolo del giudice nazionale

di Luca Perilli
Comitato Direttivo della Scuola Superiore della Magistratura

Ho ritrovato in libreria un libro intitolato “Spirito europeo”. Si tratta della traduzione in italiano del testo originale del 1947 in lingua francese “L’Esprit Européen”, una raccolta di scritti di alcuni filosofi e letterati europei, tra i quali il campano Francesco Flora, che s’incontravano a Ginevra nell’immediato  dopoguerra per discutere su come ricostruire lo “spirito europeo”.

L’Europa, come la intendiamo oggi, fu la risposta politica al senso di fragilità e di fallibilità umana, che l’orrore della guerra aveva indotto nelle coscienze di molti europei. Questa risposta si concretizzò prima nella conclusione (nel 1949) del Trattato sul Consiglio d’Europa e l’anno successivo (nel 1950) della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.

In questi trattati lo spirito europeo contro i nazionalismi e gli autoritarismi, che avevano dato origine alla guerra, si realizzava nell’affermazione del primato del diritto e dei diritti fondamentali della persona, affidati alla protezione di un giudice indipendente e imparziale. La grandezza di questa visione stava, per utilizzare le parole riferite alla Costituzione italiana dal Presidente Grossi in occasione dell’inaugurazione dei corsi alla Scuola, nel riconoscere il primato logico e storico della persona umana rispetto allo Stato e nel riconoscere la dignità umana anche negli ultimi.

 L’anno successivo, nel 1951, nasceva la Comunità del Carbone e dell’Acciaio e, solo sei anni dopo, il Trattato di Roma concludeva un periodo di forte instabilità politica accompagnata dal rischio di nuovi conflitti armati, come ha ricordato il Presidente Mattarella nel suo discorso in seduta congiunta delle Camere per il sessantesimo anniversario del Trattato.

Con il Trattato di Roma si apriva il mercato unico europeo, presidiato da Istituzioni Comuni, quale garanzia di pace e di auspicio prosperità.  La visione “dell’Europa del mercato” che, oggi, in un prolungato periodo di crisi economica di alcuni tra i Paesi europei è respinta da molti cittadini europei quale fattore di creazione di privilegi (leggevo che i britannici del sì al referendum su Brexit identificano l’Europa con il mondo della finanza di Londra) non tiene conto del fatto che il mercato comune fu uno strumento ideato per superare i confini nazionali e quindi le barriere tra i territori delle nazioni; non più territori nazionali ma spazi condivisi per la libera circolazione non solo delle imprese e dei capitali ma anche del lavoro. Il mercato unico determinò la trasformazione dello straniero da emigrante a cittadino europeo, che era così legittimato a invocare la tutela di diritti anche in un Paese diverso dal proprio. Il mercato unico fu il motore dell’emigrazione/immigrazione europea. Eurostat ci ricorda che, al novembre 2016, il cd. stock migratorio, cioè il numero delle persone residenti in un paese ma nate in altro, in Europa supera i settantasei milioni di unità, quindi oltre il 10.% della popolazione europea, e superano il 15% gli abitanti dell’UE di cittadinanza diversa che contraggono matrimonio (cd. matrimoni misti).  

Uno degli aspetti più evidenti dell’effetto di questa Europa, in cui gli Stati di origine ottocentesca cedevano spazi di sovranità, fu la creazione, con il Trattato di Amsterdam del 1999,  dello Spazio di  libertà sicurezza e giustizia. Lo storico Consiglio europeo di Tampere  del 15 e 16 ottobre 1999 stabilì l’obbiettivo di uno spazio autentico di giustizia in cui i cittadini potessero  rivolgersi ai tribunali e alle autorità di qualsiasi Stato Membro con la stessa facilità che nel loro e nel quale le sentenze e le decisioni fossero rispettate ed eseguite in tutta l’Unione senza procedure di riconoscimento. Si trattava della rinuncia da parte degli Stati nazionali a una delle principali prerogative della sovranità, ossia la giurisdizione.

Ma torniamo allo spirito europeo, esso  è emerso progressivamente, perché   sono emersi progressivamente i principi fondanti comuni, i valori che soli possono trasformare un gruppo di nazioni in una comunità. Questi valori fondanti la democrazia europea sono appunto i diritti fondamentali, intesi non come diritti individuali ma diritti umani, della persona che appartiene a una comunità.

Pur dopo il fallimento del progetto di una costituzione europea, i diritti fondamentali che scaturiscono dai Trattati e dalle tradizioni  costituzionali comuni e sono plasmati dalla giurisprudenza delle corti costituzionali e delle corti europee, sono oggi  custoditi, grazie al Trattato di Lisbona dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea  che assume lo stesso valore giuridico dei Trattati. E con l’articolo 67 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea lo Spazio di libertà sicurezza e giustizia diventa quello spazio in cui in cui a tutte le persone, compresi i cittadini di paesi terzi, è garantito il rispetto dei diritti fondamentali, sia pure con il  riconoscimento della  diversità di ordinamenti e tradizioni giuridiche degli Stati membri.

Nel contesto di questi principi  costituzionali europei, uno straordinario rilievo, per la realizzazione dello spirito europeo, rivestono il rispetto della dignità umana ed il divieto di non discriminazione, che, da soli, rappresentano la negazione delle  resistenze nazionali fondate su ragioni  di natura etnica o religiosa o ragione di discriminazione diversa e guardano alla persona come elemento di una comunità che cresce e si arricchisce nella diversità. Questo in contrapposizione  ai nazionalismi, fondati sul mito dello stato nazionale e sul principio di nazionalità, per il quale ogni gruppo etnico o religioso debba costituirsi in stato separato e che, nello stesso periodo del consolidamento di una democrazia europea, conducevano nei Balcani occidentali e per quasi dieci anni a una guerra tanto più spaventosa perché incomprensibile.

 In Europa, invece, i valori comuni, declinati dai principi di sussidiarietà e di pluralismo, hanno assicurato non solo la pace  ma anche -ed è importante ricordarlo oggi, a fronte di fatti che accadono non solo nell’Europa che non appartiene all’Unione Europea (penso alla Turchia) ma nella stessa Unione (e penso soprattutto alla Polonia e all’Ungheria)-  alla libertà personale, di pensiero e di stampa, di associazione, in un territorio  in cui in precedenza non erano mai stati garantiti quantomeno con continuità.

E proprio guardando all’”allargamento dell’Unione Europea”, un passaggio politico rilevantissimo per l’affermazione dei valori fondanti la democrazia  europea fu la cosiddetta dichiarazione di Copenaghen del 1993, quando il Consiglio Europeo stabilì i criteri politici per l’adesione di nuovi Stati all’Unione Europea e quindi  i caratteri politici minimi ed essenziali della convivenza europea. Ebbene il criterio politico di Copenaghen  (in linea con quanto stabilito dagli articoli 6 e 49 del Trattato di Maastricht) ribadiva, quali condizioni minime per il percorso di adesione all’Unione,  il primato del  diritto (rule of law) ed il rispetto dei  diritti dell’uomo e delle minoranze affidati alla protezione di un giudice indipendente. Si affermava dunque in una dichiarazione politica, che doveva valere per i Paesi terzi perché rifletteva il comune sentire europeo, che i cardini della democrazia europea erano il rispetto dei diritti fondamentali e l’indipendenza del potere giudiziario. Questo principio di indipendenza si è declinato, nei percorsi per i negoziati di adesione all’UE dei Paesi dei Balcani occidentali e  della Turchia,  nella costituzione di un consiglio superiore della magistratura indipendente ed eletto nella sua maggioranza da giudici e pubblici ministeri, che quei diritti era chiamata proteggere e, lasciatemelo dire, anche di scuole della magistratura indipendenti.

Oggi dobbiamo riconoscere che questo progetto straordinario e storicamente senza precedenti.  Le cause sembrano note: da un lato l’idea, alimentata dai “populismi” –che dimenticano l’Europa dei diritti fondamentali-, che l’Europa dei mercati non significhi prosperità per tutti in modo uguale e che anzi alimenti le burocrazie europee in luogo di quelle nazionali; dall’altro la grande paura del nuovo millennio, quella legata alle ondate migratorie dall’Africa e dal medio - oriente, una paura di quella diversità che da sempre ha rappresentato la ricchezza dell’Europa; una paura che sfugge al controllo della ragione.  

Ma il problema vero è la crisi dello spirito europeo che non può crescere da solo ma ha bisogno di essere alimentato da valori comuni. Questa crisi dei valori è evidente a livello politico ed istituzionale: stiamo compiendo un percorso inverso rispetto alla dichiarazione di Copenaghen. Il caso della Turchia lo dimostra. Si tratta di una democrazia che aveva compiuto passi da gigante, con il sostegno dell’Unione Europea, su due fronti: quello del rafforzamento dell’indipendenza della magistratura, attraverso un Consiglio eletto per la maggioranza da magistrati e con prevalenze di magistrati delle giurisdizioni inferiori,  e quello della protezione dei diritti fondamentali attraverso un ricorso individuale alla Corte costituzionale che si era dimostrato effettivo. Ebbene, dal luglio scorso, stiamo assistendo alla demolizione di quella democrazia,  sotto i colpi di maglio di una maggioranza politica che disintegra i diritti fondamentali: dalla libertà personale, alla libertà  di pensiero e stampa, quella di associazione, fino alla violazione del divieto assoluto, quello di tortura. Ebbene la scomparsa di una grande democrazia europea stride, drammaticamente, non solo con il silenzio di molti Governi nazionali ma anche con quello delle istituzioni di governo europee (non del Parlamento europeo che si è a maggioranza pronunciato, nel novembre 2016, per la sospensione dei negoziati di adesione), le quali  devono fare internamente i conti con Stati europei in cui il primato del diritto e la protezione dei diritti umani sono messi in discussione da maggioranze politiche di stampo “populista”. Però, l’assenza di una reazione adeguata non è tollerabile quando sono in gioco i principi fondamentali della democrazia europea.

Parallelamente agli autoritarismi, riemergono con forza i nazionalismi che si nutrono della paura dell’immigrazione e del rifiuto della diversità. Si tratta di nazionalismi ciechi di fronte ad una società europea già ampiamente multiculturale e multinazionale e indifferenti alla storia dell’Europa la cui forza è sempre stata l’integrazione delle diversità per arricchire la propria identità. Questi nazionalismi condizionano pesantemente la vita politica dei Paesi europei, trasformando ogni elezione politica nazionale in una sfida contro l’Europa ed in cui l’Europa è trasfigurata in una parte politica.  

Come reagire?

Dobbiamo innanzitutto ripartire dal ruolo del giudice. La debolezza delle Istituzioni di governo europee, bloccate dai veti contrapporti, e di quei governi nazionali tradizionalmente europeisti che non sono, però, indifferenti a quella parte di elettorato che urge per una difesa degli interessi nazionali se non individuali, amplia a dismisura il ruolo del giudice proprio nella tutela dei diritti delle persone e delle minoranze.

Il ruolo del giudice nazionale è cambiato profondamente di fronte alle fonti sovranazionali; è più ricco ma impone maggiori responsabilità. Come ci insegna la Corte Costituzionale, il potere giudiziario è l’unico potere a struttura diffusa ed orizzontale. Non intendo entrare nella questione se oggi, di fronte al diritto dell’Unione Europea, sia stato attribuito al giudice nazionale un potere diffuso di controllo di costituzionalità della legge. Ma tra le diverse teorie, mi piace richiamare ancora una volta le parole pronunciate dal Presidente Grossi sul giudice che “inventa la norma”, non nel senso che la crea ma, di fronte ad un legislatore che non riesce a stare al passo con i mutamenti sociali ed economici, la trova guardando innanzitutto alle fonti costituzionali per adattarla al caso concreto. Il giudice, dice Grossi,  conferisce alla norma costituzionale la possibilità di vivere nella quotidianità dell’ordinamento.

E faccio un unico esempio, con riguardo al tema di oggi, quello dell’immigrazione. Il decreto Minniti ha introdotto forti limitazioni ai diritti dei migranti che chiedono protezione internazionale. Si pensi alle straordinarie limitazioni del diritto di  difesa, con il divieto di accesso, prima della fase di reclamo, alla registrazione dell’ascolto assunto in sede amministrativa o all’abolizione del diritto all’udienza nella fase giurisdizionale; si pensi, poi, all’abolizione dell’appello per i richiedenti protezione internazionale e solo per i richiedenti la protezione internazionale, con una previsione che ha un contenuto, se non incostituzionale, certamente discriminatorio. Ebbene, di fronte ad una legge che penalizza i diritti processuali dei più deboli, spetta al giudice nazionale assicurare una protezione giudiziale effettiva, perché lo impone, oltre che la Costituzione, l’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Protezione effettiva significa restituire alla parte quei diritti processuali che la norma gli nega? Significa, nei casi estremi, apprestare i rimedi processuali che la norma non prevede? Il giudice si deve muovere tra interpretazione orientata dalla Costituzione e dalle Carte sui diritti fondamentali, tra disapplicazione del diritto nazionale e rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia. Tutto ciò richiede professionalità, coraggio e consapevolezza del proprio ruolo.

C’è poi il livello politico. La crisi dello spirito europeo richiede un diverso coraggio della politica. Serve maggiore integrazione politica e servono diverse e più forti istituzioni europee che governino questa integrazione. L’ambigua  e deludente dichiarazione di Roma del  25 marzo scorso per la quale i Paesi «agiranno insieme, a passi e intensità diversi quando necessario, mentre si stanno muovendo nella stessa direzione», rende indifferibile una reazione politica da parte di alcuni Paesi, per superare l’attendismo se non il boicottaggio di altri.

Si tratta di azioni che richiedono, ripeto, coraggio. E qui la magistratura associata può giocare ancora un ruolo importante, perché la magistratura associata fa parte della coscienza politica del Paese. E  va quindi ringraziato il Coordinamento di Area ha che scelto in questo primo congresso di affrontare, a proposito di Giustizia come bene comune, il tema dei diritti umani e “degli italiani senza cittadinanza”, di quegli italiani invisibili agli occhi di un Paese e di un’Europa che è sempre cresciuta quando si è arricchita nella diversità.