Spunti di riflessione

di Edmondo Bruti Liberati
già Procuratore della Repubblica di Milano

Alcuni spunti di riflessione, tratti dalla mia esperienza, su un tema con il quale la magistratura e dunque Area Democratica per la Giustizia sono chiamati oggi quotidianamente a confrontarsi.

1. Repressione penale: caratteri e limiti. Cosa si deve e cosa non si deve chiedere alla giustizia penale, si tratti di corruzione, mafia, terrorismo o traffico di migranti

Alla giustizia penale si deve chiedere  di accertare fatti di reato specifici e responsabilità individuali, con il livello di prova elevato che si esige per una condanna, nel pieno rispetto delle garanzie di difesa   e non di indagare e pretendere di risolvere problemi politici e sociali. 

Alla giustizia penale si deve chiedere l’accertamento di fatti previsti dalla legge come reato (oggi è  passata nel linguaggio giornalistico la locuzione reati penali, ma forse serve a fare chiarezza), e non l’intervento su fatti di malcostume o irregolarità ammnistrative.

Una citazione:

“A me sembra profondamente immorale che si possano avviare delle indagini e contestare delle cse nella assoluta aleatorietà del risultato giudiziario. Non si può ragionare ‘intanto io contesto il reato, poi si vedrà’, perché da questa contestazione poi derivano, soprattutto in determinate cose, conseguenze incalcolabili. Quindi io continuo ad essere convinto che questo tipo di elementi a carico di X, non fossero tali, nemmeno, per giustificare una informazione di garanzia, non so poi per quale reato” (Giovanni Falcone audizione al Csm 15 ottobre 1991, pag. 61 del verbale)

Alla giustizia penale non si possono imputare   gli effetti di destabilizzazione  o anche di crisi di settori dell'economia, effetti questi non voluti, ma talora causati dalle indagini, ovvero i ritardi nel completamento di opere pubbliche, ma si può chiedere sia di svolgere le indagini con la massima celerità sia di tenere in conto il monito rivolto dal Presidente Mattarella ai magistrati in tirocinio

“i provvedimenti adottati dalla magistratura incidono, oltre che sulle persone, sulla realtà sociale e spesso intervengono in situazioni complesse e a volte drammatiche, in cui la decisione giudiziaria è l'ultima opportunità, a volte dopo inadempienze o negligenze di altre autorità. Per questo l'intervento della magistratura non è mai privo di conseguenze. La valutazione delle conseguenze del proprio agire non può essere certo intesa in alcun modo come un freno o un limite all'azione giudiziaria rispetto alla complessità delle circostanze. È, comunque, compito del magistrato scegliere, in base alla propria capacità professionale, fra le varie opzioni consentite, quella che, con ragionevolezza, nella corretta applicazione della norma, comporta minori sacrifici per i valori, i diritti e gli interessi coinvolti”. (6 febbraio 2017):

2. Venticinque anni dopo: l’eredità di Mani Pulite

A venticinque anni dalle indagini di Mani pulite non sono utili  celebrazioni, ma analisi. Vi furono, certo, taluni eccessi (in particolare nell’uso della custodia cautelare in carcere), errori, protagonismi, vi furono dolorose e tragiche vicende personali. Ma la storia di Mani pulite non è una storia di eccessi e di errori, è, al contrario, la storia del doveroso intervento repressivo penale di fronte ad un vero e proprio sistema di corruzione, ad una devastazione della legalità.

Questa la eredità positiva di Mani Pulite. La esperienza  maturata nelle indagini di allora ci consegna  oggi una magistratura consapevole della propria indipendenza, impegnata a riaffermare il primato della legalità senza reticenze o timori reverenziali, con adeguata professionalità. Ma non giova certo alla analisi  la semplificazione del “tutto è corruzione” “tutta la politica è corrotta”, semplificazioni che scivolano nel qualunquismo.

La vicenda  di Mani pulite ci insegna  ancora  che una cosa è l’apprezzamento  della opinione pubblica  per la azione dei magistrati e altro è il tifo da stadio o il sostegno acritico, che alla giustizia fa ancora più male, se possibile, degli attacchi denigratori e delegittimanti.

3. Dal “Protagonismo” (necessitato) della magistratura al “protagonismo” (improprio) dei magistrati

Alessandro Pizzorno nel 1998 nello  scritto  dal titolo “Il potere dei giudici. Stato democratico e controllo della virtù”  segnalava come profonda anomalia e momento di crisi dello stato democratico  il fatto che alla magistratura venisse richiesto il “controllo di virtù” sul comportamento dei politici ( ivi p. 62-63). Il “protagonismo” improprio di taluni magistrati, con cedimenti verso il “controllo della virtù”, è la parte negativa della eredità di Mani pulite.

A fronte di  una società civile disgregata e  di una politica in crisi di credibilità, con la crescita di populismi variamente declinati, soffia di nuovo in magistratura, ( e fino a poco fa anche ai vertici dell’Anm) un  vento di chiusura corporativa con  il proporsi come unica istituzione sana  del paese (magistratura vs politica corrotta).

Oggi in magistratura emergono  posizioni di chiusura corporativa e di autorefenzialità , che tendono a coniugarsi con il populismo giudiziario.

E se il populismo della politica è male, il populismo giudiziario è pessimo. La forte denuncia del populismo giudiziario che segnò un intervento  del 2012 di  Luigi Ferrajoli è più che mai attuale: “L’esibizionismo, la supponenza e il settarismo di taluni magistrati, in particolare Pm e il “loro protagonismo  nel dibattito pubblico diretto a procurare consenso alle loro inchieste e soprattutto alle loro persone”.

Non meno attuali le massime deontologiche che Ferrajoli proponeva: “il costume di sobrietà e riservatezza”; “la consapevolezza del carattere sempre relativo ed incerto della verità processuale”; “il costume del dubbio, la prudenza nel giudizio, la disponibilità all’ascolto di tutte le diverse e opposte ragioni”;  “il rispetto dovuto a tutte le parti in causa, vittime e imputati, pur se mafiosi, terroristi o corrotti”.

 E mi permetto di chiosare io: è stato talora paradossalmente invocato  come principio di eguaglianza,  applicare ai colletti bianchi la stessa caduta di garanzie, la stessa sciatteria  e lo stesso atteggiamento forcaiolo riservato normalmente ai poveri cristi. Ed è anche sotto gli occhi di tutti il rischio, evocato in un recentissimo pamphlet  da Costantino Visconti, di “derive di controllo panpenalistico sulle prassi politiche” (C. Visconti, “La mafia è dappertutto” ( Falso), Laterza, Bari-Roma, 2016)

Concludo richiamando un ulteriore passaggio del già citato discorso del Presidente Mattarella ai magistrati in tirocinio:

“Equilibrio, ragionevolezza, misura, riserbo sono virtù che, al pari della preparazione professionale, devono guidare il magistrato in ogni sua decisione. Lo spirito critico verso le proprie posizioni e "l'arte del dubbio" – l'utilità del dubbio – sorreggono sempre una decisione giusta, frutto di un consapevole bilanciamento fra i diversi valori tutelati dalla Costituzione.

La magistratura, nella nostra recente storia, ha dimostrato di avere tutti gli strumenti per garantire il riconoscimento dei diritti, senza condizionamenti. È un bene che sia sempre più orgogliosa della sua funzione insostituibile, ma anche consapevole della grande responsabilità che grava sulla sua azione.”

Il Presidente si rivolgeva ai magistrati in tirocinio ma il monito  si deve considerare rivolto a tutti i magistrati che  esercitano questa grande responsabilità,  – per dirlo con le parole di  Montesquieu – “la puissance de juger, si terrible parmi les hommes”.