COMMENTI

Solo corpi

Donatella Salari
Componente del Coordinamento Nazionale di AreaDG
Protezione internazionale: nella proposta che il Ministro dell'interno sta per presentare al Consiglio dei Ministri si preannuncia la desertificazione di principi fondamentali dell'ordinamento costituzionale. Ma il compito della giurisdizione resta quello di tutelare i diritti inviolabili, che la Costituzione “riconosce e garantisce” e non “concede”

Le recenti vicende della nave Diciotti e della deportazione, neanche tanto nascosta, di 150 migranti dimostrano che il populismo avanza intorbidando i piani dei diritti fondamentali confondendoli con l’economia, con la sicurezza, livellando, infine, la solidarietà a pratica di disturbo della tranquillità dei cives, risvegliatida un nazionalismo spocchioso e convinto che il benessere sia un diritto e non un punto d’arrivo.

Lo ius dicere si trova, nella difficoltà di ogni giorno, a presidiare diritti maltrattati dalle emergenze del consenso ricercato a prezzo di qualunque semplificazione ed il cittadino, spesso, non è neanche consapevole del forte rischio a cui conduce l’egoismo sociale, ossia, ineluttabilmente, ad un deficit di libertà, soprattutto se accompagnato da un linguaggio disadorno e plebeo che si auto desertifica nei tweet e nei vari sfogatoi da social.

 La stretta violenta sull’immigrazione dimostra anche che i singoli leaders politici non riescono a governare il disagio e le disuguaglianze sociali, mentre l’autoritarismo ben si presta a divenire facile moneta di scambio delle pulsioni antieuropee e la recente vicenda della nave Diciotti lo conferma.

In questo scenario il nostro dovere di magistrati è quello di rintuzzare queste contraddizioni a colpi di realtà rimanendo fedeli ai nostri valori e all’umanesimo dello ius dicere perché il salto all’indietro di certe democrazie liberali, come è accaduto recentemente in Ungheria, mostra chiaramente che agendo sul duplice fronte del controllo sul potere giurisdizionale e sul fronte mediatico si arriva facilmente allo svuotamento del valore della democrazia specie quando si erodono i diritti fondamentali che ne costituiscono il fondamento.

Ma la violenta volontà di esserci da parte della politica securitaria spinge verso le parole della c.d. emergenza immigrazione con enfasi allarmistica perseguendo la marginalizzazione della giurisdizione nel momento in cui essa è chiamata a dare risposta alle sollecitazioni della contemporaneità e a chi, come il migrante, ci chiede un riconoscimento d’identità dal momento che può consegnarci, alla fine del viaggio, solo la propria storia mentre il sovranismo alza muri simbolici.

Ora, gli interventi di politica migratoria mediaticamente enfatizzati sulla security concentrati sulla zona dell’Africa subsahariana rischia di accentuare l’idea di una protezione internazionale incistata dentro l’ordine pubblico che trascura il dato globale migratorio che va, invece, governato come fenomeno strutturale, considerato che esso rappresenta appena il 14% della popolazione mondiale.

Deviando il dibattito politico sugli accenti stentorei dell’emergenza respingimento l’opinione pubblica viene posta nella difficile condizione di non comprendere che i numeri più consistenti arrivano dal Sahara in giù, con una popolazione in marcia che può stimarsi in circa 5 milioni di persone, ossia il 46% circa del totale mondiale.

Solo questo basterebbe a sgretolare le nostre certezze rispetto a chi, talora con cinismo politico, si illude di produrre un cambiamento anche in assenza di un progetto preciso che abbracci accessi legali, quote e corridoi umanitari, perché non esiste una sapienza da cui trarre e strutturare interventi su fenomeni così complessi e si tende a rimuoverli, se non a manipolarli, con la mistica dell’emergenza e dell’ordine pubblico dimenticando che dall’Africa nel 2017 si sono spostati almeno 10 milioni di migranti di cui solo 172,00 scelgono la via del mare.

Ebbene, quasi 250 milioni di persone, in tutto il mondo, sono migranti e questo numero è destinato a dilatarsi a 140 milioni nel 2050 secondo una stima della World Bank.

Basterebbe solo questo per non arrendersi al populismo o assumere, ancor peggio, un atteggiamento di aristocratica indifferenza, lasciando ai populisti la costruzione del progetto politico secondo obiettivi di priorità imposti dai sondaggi politici. 

Molte di queste persone migrano in cerca di opportunità economiche, ma molti, ancora, partono per effetto delle disuguaglianze socioeconomiche tra Paesi e interi continenti aggravate da conflitti interni, cambiamenti climatici e disastri naturali.

Ancor più recentemente si è tentato di fare una stima dell’aree interessate alle siccità come Burundi, Etiopia e Madagascar con una popolazione migrante stimabile in 1,5 milioni.

Pensiamo che dall’inizio del 2016 in Italia sono arrivate 153.450 persone con aumento del 10% in più rispetto allo stesso periodo dello scorso anno[1] attraversando il Mediterraneo, ma si tratta, comunque, di una contrazione significativa rispetto al 2015 da collegare agli accordi degli Usa con la Turchia la quale in cambio di aiuti economici si è impegnata a presidiare l’immigrazione dal medio Oriente.

La maggior parte di loro proviene dall’Africa sub-sahariana e si lascia alle spalle un lungo viaggio attraverso l’Africa, passando per la Libia e la traversata verso l’Italia è solo l’ultima tappa[2].

 La durata media del viaggio dal paese di origine è di venti mesi, mentre il tempo medio di permanenza in Libia è di 14 mesi in un contesto di torture e detenzioni forzate organizzate dai trafficanti di esseri umani, come avviene in Niger e Sudan, dove i migranti vengono sistematicamente sequestrati, messi in carcere torturati e rivenduti[3].

Anche durante il viaggio i migranti vengono spesso torturati e questi racconti ricorrono continuamente nelle richieste di protezione internazionale, come vi sono narrazioni di lavori forzati per pagare ai trafficanti per un viaggio che parte da 1.500 dollari in su.

A questi dati vanno aggiunti quelli relativi all’impressionate numero di un milione e seicentomila venezuelani, tanto sono stimati dall’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), secondo la quale un venezuelano su 20 ha lasciato il paese, in fuga tra il 2015 e il 2017 incalzati da indigenza e crisi politica e si dirigono verso gli Stati Uniti, in Canada, in Italia, Portogallo e Spagna mentre si sta saturando l’accoglienza in Colombia e Cile.

Si tratta di cifre destinate ad aumentare considerato che l’aumento dell’inflazione, toccherà quota 13.000% secondo il Fondo Monetario Internazionale, e che il deficit endemico di beni di consumo spingerà verso un aumento del flusso migratorio.

Gli strumenti

L’Italia è, oggi, il teatro del dramma dei rifugiati  e la magistratura, come sempre, risponde, pur nei limitati mezzi  disponibili.

La situazione attuale è nota. Sappiamo che ai sensi dell’art. 2 lett. a) d. lgs. n. 251/2007, la "protezione internazionale" comprende sia lo status di rifugiato, sia la protezione sussidiaria.

Il quadro della protezione internazionale è, poi, completato dalla c.d. protezione umanitaria, disciplinata da normativa esclusivamente nazionale e, precisamente, dall’art. 5 co. 6° d. lgs. n. 286/1998.

Si tratta di una terza categoria di status nazionale disciplinata dagli artt. 5, comma 6, e 19 del d.lgs. n. 286 del 1998, nonché art. 32 della legge n. 189 del 2002.

Questa forma di protezione trova spazio ove il Giudice non accolga la domanda di protezione internazionale e ritenga che possano sussistere gravi motivi di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello stato italiano.

Per vero, la normativa sul punto non definisce in termini univoci quali siano le esigenze di protezione umanitaria del richiedente la protezione e, come afferma la giurisprudenza di legittimità, essa costituisce “un catalogo aperto”.

Possiamo però, affermare, che viene previsto il rilascio di permessi di natura umanitaria sulla base del principio costituzionale di non refoulement, pure in assenza di elementi identificativi del fumus persecutionis.

Recentemente la Corte di Cassazione (Cass. 4455/2018) ha valorizzato, in questa forma di protezione, l’elemento dell’integrazione sociale, non disgiunto dalla valutazione dell’eventuale sacrificio dei diritti umani del richiedente nel paese d’origine, da valutare con i consueti strumenti di cooperazione istruttoria e del beneficio del dubbio.

L’Utopia di uno Statuto del migrante

Si comprende subito che l’Italia non si è, ancora, dotata di una normativa organica in materia di asilo verosimilmente perché si sono fornite risposte emergenziali ad un fenomeno strutturale dei flussi migratori che possiamo definire forzati, senza una pronta ed immediata riposta di politica di accoglienza.

L’Ufficio giudiziario, come il contesto sociale su cui interviene la risposta giurisdizionale, sconta la difficile sostenibilità globale dei flussi.

Del resto, solo nell’ultimo decennio del secolo scorso assistiamo ai primi tentativi di legiferazione sui richiedenti asilo con interventi alquanto disorganici.

Possiamo, invece, parlare di una progressiva formazione di una sorta di “statuto” del richiedente asilo che tende a trovare una sua identità organica da ricostruire in base ai caratteri delle fonti (costituzionali, comunitarie ed internazionali) alquanto rigide se pensiamo agli interventi disorganici– spesso emergenziali sulle fonti interne, molto condizionanti rispetto alle condizioni d’ingresso e di soggiorno, nonché di espulsione degli immigrati.

Dai dati disponibili e più aggiornati si registra per il 2016 un dato che ci indica come la rotta libica che rappresentava l’82% dei migranti risulta, per il 2016-2017, in flessione rispetto alle partenze dalla Tunisia dall’Egitto e dall’Algeria.

Questa flessione nasce verosimilmente dal controllo del tratto di mare davanti alla Libia.

Questi dati per la giurisdizione sono cruciali perché per la valutazione della domanda del richiedente la protezione internazionale, deve aversi riguardo, tra l’altro, alle vicende politiche del paese di origine al momento della decisione giurisdizionale, al fatto che l’istante abbia già subito persecuzioni, alla sua situazione individuale (il passato, l’età, il sesso) e a qualsiasi attività esercitata dal richiedente successivamente alla fuga dal paese di origine.

Ci rendiamo subito conto della difficoltà obiettiva per chi fugge dal proprio paese d’origine di documentare circostanze ed eventi che possano supportare la richiesta di protezione internazionale.

Ciascuna domanda deve essere, perciò, esaminata alla luce di informazioni aggiornate sul paese di origine del richiedente asilo, ossia con valutazione individuale.

Rispetto a questo approccio non è pensabile coartare con circolari il dato quantitativo delle richieste di protezione, come invece sembra perseguire il Ministero dell’Interno con l’emanazione della circolare a firma Ministro Salvini del 4 luglio 2018 diretta alle Commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale.

La circolare in questione, citando proprio la sentenza della Corte di Cassazione n. 4455/2018, rileva che la protezione umanitaria è stata spesso concessa senza un approfondimento della reale situazione politica e sociale del Paese di provenienza.

Questa direttiva, che potrebbe porre un serio problema d’indipendenza del giudizio delle Commissioni e di valutazione individuale di ogni caso ad essa demandata, ripropone la necessità di una sempre più stretta formazione comune tra Commissioni e Giudici della Protezione internazionale che va perseguita per una cultura condivisa dei diritti umani e in vista di una stabilizzazione della giurisprudenza che consenta anche la deflazione del contenzioso e il contenimento della spesa del gratuito patrocinio.

In questo la Scuola Superiore della Magistratura può dare una grande contributo.

I nuovi compiti della giurisdizione e la specializzazione

Sta ora a noi dare voce alla Costituzione in materia d’asilo che è premessa indispensabile dell’accoglienza e dell’accesso al lavoro in una rinnovata dimensione di etica pubblica che guardi con lucidità anche alla seconda e terza generazione di migranti perché queste persone sono la più grande risorsa di cui ogni Paese dispone[4].

Per tale ragione non dobbiamo consentire che l’emigrazione divenga collasso di un equilibrio reso precario, ma opportunità d’integrazione da ricercare in una crisi che ci pone al centro della vicenda migratoria.

Per tali ragioni la giurisdizione, insieme alle altre istituzioni, sceglie di essere punto di riferimento per frenare le marginalità e le discriminazioni non in senso burocratico, ma realmente partecipativo affermando che sia nostro dovere dare accoglienza solo comprendendo la storia appena recente e pensando a quei 24 milioni di italiani emigrati tra il XIX° e il XX° secolo.

Oggi sono quasi 5 milioni i cittadini italiani che vivono fuori dal nostro Paese e che sono partiti verso un futuro carico d’incertezze esattamente come chi, oggi, affronta il viaggio dei diritti senza terra verso settemila chilometri di coste.

Il viaggio è tanto lungo quanto si moltiplica la distanza tra opulenza e povertà da comprendere non solo in termini di risorse, ma, soprattutto, di accesso ad esse, ossia a quelle che il premio Nobel Amartya Sen chiama “capalbities” ovvero, opportunità.

La Giustizia è chiamata a rispondere alle domande di protezione dei richiedenti asilo, ossia a fare delle scelte e a motivarle per poterle condividere con la realtà sociale e con la cittadinanza, come se fossimo, anche noi, operatori di pace. 

Finalizzare l’integrazione depotenziando le problematiche emergenziali è, a nostro parere, ancora possibile se pensiamo che attualmente il 98% delle persone in fuga da emergenze umanitarie sono accolte fuori dai confini dell’Unione Europea (Turchia, Pakistan, Libano, Iran ed Etiopia sono i primi cinque Paesi per numero di persone accolte).

La giurisdizione, ancora una volta, è chiamata ad un compito immane che coinvolge competenze multidisciplinari nell’adattamento di ciascuna narrazione alla situazione politica di ogni Paese verificando il rispetto dei diritti umani, come ci compete.

Pensiamo, allora, che la maggior parte di questi migranti è priva di documenti, ossia è deprivata di ciò che la rende capace di essere soggetto sociale, perché le persone che accogliamo spesso non hanno più alcuna identità e possono solo raccontare la loro storia a noi che, attraverso la giurisdizione, siamo chiamati al compito nuovo di ascoltarla e ricondurla al rispetto dei diritti umani attraverso la nostra Costituzione.

Solo la loro storia i rifugiati, hanno a disposizione e, questo, li rende ancora più vulnerabili perché percepiamo nei loro racconti di persecuzione o di disagio materiale o relazionale, che la stessa nascita e vita pregressa, rispetto alla loro fragilità, non sono che indizi remoti vissuti, quasi confusamente prima d’intraprendere il viaggio

La criminalizzazione delle organizzazioni governative con le quali si è tentato di impedire i salvataggi in mare si è rivelata inconsistente, come il vaniloquio dei barconi zeppi di terroristi o di “palestrati” in una lingua impastata dalle grida sovraniste mentre è prevedibile che le fasce sociali più deboli diventino facile retaggio del vero fantasma della democrazia, ossia del populismo.

La vicenda della nave Diciotti dimostra plasticamente che la deportazione può diventare mezzo di ricatto politico e che la sfida lanciata alla giurisdizione chiamata al suo solo compito di ius dicere non è che undiversivo rispetto ad un linguaggio politico che non racconta nulla se non il disprezzo per la legalità divenuta un avversario da combattere in nome dell’egoismo sociale.

La desertificazione dei principi fondamentali della Costituzione si preannuncia, ora, nella proposta che il Ministro Salvini presenterà a giorni al Consiglio dei Ministri.

Le nuove norme si proporrebbero di allungare i tempi dagli attuali 90 a 180 giorni del trattenimento degli irregolari nei Cpr (centri per i rimpatri) ai fini dell’identificazione in vista del rimpatrio medesimo.

Si pensa, dunque, ad un aumento dei posti disponibili nei centri di rimpatrio, oltre che un ampliamento dei reati commessi dal migrante nel Paese di provenienza che possano impedire la protezione internazionale richiesta.

Secondo quanto si è appreso si vorrebbe anche incidere sugli attuali poteri delle Commissioni territoriali e del Questore di apprezzare i gravi motivi di carattere umanitario ovvero i seri motivi, di carattere umanitario ai fini della concessione di tale forma di protezione nazionale e residuale.

Siccome anche le parole possono essere inospitali, la stretta si giustificherebbe con la sproporzione tra il numero di riconoscimenti delle forme di protezione internazionale pari a 7% e protezione sussidiaria: 15%) e il numero dei rilasci del permesso di soggiorno per motivi umanitari (25%/28% in aumento per il 2017) come se ogni riconoscimento non fosse legato all’indipendenza dei poteri conoscitivi delle singole Commissioni territoriali chiamate a decidere caso per caso in base a racconti individuali e ci si potesse illudere di agire contraendo il quantum delle richieste omologandole nel linguaggio ingannevole del populismo.

Naturalmente ci sono le eccezioni quali quelle delle condizioni di salute di eccezionale gravità (si parametra la valutazione a casi limite) e nelle situazioni contingenti di calamità naturale del Paese di origine che impediscono temporaneamente il rientro dello straniero in condizioni di sicurezza.

Inoltre, è previsto un permesso di soggiorno ad hoc per le vittime di violenza domestica o grave sfruttamento lavorativo, oltre che finalità premiali per atti civici di rilievo.

Tuttavia, irrigidendo e categorizzando si rischia di produrre una stretta sulle possibilità d'integrazione che sembrerebbe espressamente riservata ai soli minori non accompagnati e ai titolari di protezione internazionale, mentre si pensa a rafforzare le misure e le risorse necessarie ed urgenti per assicurare l'effettività dei provvedimenti di rimpatrio di coloro che non hanno titolo a soggiornare nel territorio nazionale.

A tale proposito degno di nota è il trattenimento nei Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) ex Cie, destinati, nel progetto Salvini, a mutare ancora natura in attesa del rimpatrio, fino a un massimo di 180 giorni rispetto al limite di 90 giorni attuali[5].

A tale scopo le risorse destinate ai comuni per istituire degli sportelli informativi dedicati all’accesso dei programmi di rimpatrio volontario saranno riversati sul Fondo per i rimpatri istituito presso il ministero dell’interno.

Capitolo complesso è anche quello dell’ampliamento delle fattispecie di reati che, in caso di condanna definitiva, comportano il diniego o la revoca della protezione internazionale attraverso la previsione di ipotesi delittuose come i reati di violenza sessuale, produzione, traffico e detenzione ad uso non personale di stupefacenti, nonché di rapina ed estorsione, ma ricomprendendovi anche la minaccia a pubblico ufficiale, la resistenza a pubblico ufficiale, oltre alla violenza sessuale le lesioni personali gravi e gravissime, il reato di mutilazione degli organi genitali femminili nonché i reati di furto, furto in abitazione aggravati dal porto di armi o narcotici.

Siccome poi la forza del sovranismo sta nella continua cancellazione della storia e nel rifiuto della cultura umanistica si porta la stretta fatale alla cittadinanza alzando un altro muro simbolico.

Non importa che l’Enea virgiliano Italiam profugus venit, dopo un terribile viaggio con il quale ha attraversato le Coste dell’Africa, sia destinato proprio lui, un immigrato, a fondare le origini di Roma, né che l’esperienza romana di inclusione faccia sì che il giudeo Paolo possa fregiarsi della cittadinanza romana e dei privilegi riconosciuti perché il decreto Salvini stringe anche sul riconoscimento della cittadinanza iure sanguinis, limitandone la trasmissione ai discendenti in linea retta di secondo grado, cioè ai nonni, se si è in grado di documentare il loro status civitatis.

Insomma, il sangue avrebbe una scadenza.

Nel frattempo, si pensa d’intervenire anche sulla revoca della cittadinanza italiana laddove i beneficiari rappresentino una minaccia per la sicurezza nazionale, allorché l’interessato abbia riportato condanne per gravi reati commessi con finalità di terrorismo o eversione.

Siccome, poi, anche la difesa dei diritti umani deve rantolare si esclude che il difensore della parte ammessa al gratuito patrocinio abbia diritto all'anticipazione di spese ed onorari a carico dell'erario quando l'impugnazione è dichiarata improcedibile o inammissibile.

In conclusione, tirando le fila del discorso la vera stretta riguarda, come prevedibile, i permessi umanitari.

Vengono introdotti in luogo del permesso umanitario cinque tipologie di permessi derivanti da:

Si teme, inoltre, un ridimensionamento dei 35.000 posti di accoglienza diffusa sul territorio attraverso il sistema SPRAR[6] limitato ai soli casi di protezione internazionale.

Non si tratta di una proposta da poco per chi cerca un’identità ed aspira ad un riconoscimento sociale il quale, attraverso un atto scritto, è in grado di evidenziarsi e costituisce la premessa indispensabile di un cambiamento e, dunque, di una crescita.

Del sistema SPRAR fa parte anche l’esperienza di Riace e del suo genius loci, ossia Mimmo Lucano, cui Wim Wenders ha dedicato il cortometraggio “Il volo”.

 Un’avventura iniziata nel 1998 con lo sbarco di 800 rifugiati curdi che ha ridato vita ad un borgo di pescatori lasciato all’abbandono.

A Riace oggi vivono 6000 richiedenti asilo in una struttura aperta e partecipata.

Particolarmente afflittiva anche la ventilata proposta, appena accennata, di limitare la fruizione dei servizi comunali per i richiedenti asilo: prima, tra tutti, la carta di identità da sostituire con altro documento...inospitale.

In definitiva, si tratta di un approccio che marginalizza l’inclusione e lascia aperti interrogativi sulla compatibilità costituzionale di tutto l’impianto sia rispetto all’art. 10 secondo comma della Costituzione, sia rispetto alla reale urgenza di un intervento per decreto ai sensi dell’art. 76 e 77 Cost. e ci si chiede se il tema dei diritti fondamentali non meritasse, piuttosto, un disegno di legge governativo con dibattito parlamentare franco ed approfondito.

Conclusione

In questo difficile scenario la giustizia, ancora una volta,  è chiamata a fare la sua parte e a prendersi cura dei diritti di chi fugge e siamo convinti che questo sia il modo migliore per raccontare il suo impegno rispetto all’inverarsi della Costituzione e per allontanare lo spettro di quella paura collettiva che impedisce i veri cambiamenti mentre serpeggia il risentimento verso tutto ciò che è comune: L’Europa, i diritti, la cultura e lo Stato perché i diritti inviolabili spettano all’individuo indipendentemente  dal contesto in cui esso vive e questo ce lo insegna la Costituzione tutte le volte che “riconosce e garantisce” e non “concede”.

Questo è il nostro compito oggi.

[1] Vedi: www.ansa.it/sito/notizie/cronaca/2016/10/24/153mila-sbarchi-nel-2016-e-anno-record_52c8db29-24b0-4743-84a1-f2a52577077a.html

[2] Secondo i dati Unhcr il numero dei rifugiati sbarcati in Italia si assesterebbe su 177.444 persone dal 1 gennaio al 30 novembre 2016.

[3] Secondo il rapporto ONU- Security Council Distr.: General, 12 February 2018, Report of the Secretary-General on the United Nations, dedicato a Support Mission in Libya, Tripoli ha assistito a un aumento delle privazioni illegittime di libertà di funzionari governativi e altre figure di alto profilo.  L'UNSMIL ha condotto otto visite a prigioni e strutture di detenzione in occidente Libia, inclusi Gharyan, Misratah, Tarhunah e Tripoli. Nonostante ripetuto richieste, UNSMIL non è stata in grado di visitare la struttura di detenzione Mitiga, che è controllato dalla Special Deterrence Force e dove ci sono circa 2.600 persone presumibilmente detenuti, la maggior parte senza accusa né processo.

[4] Nelle previsioni del Fmi che il minor afflusso di migranti determinerà un’impennata della spesa pensionistica fino al 20,5% nel 2040

[5] Queste nuove strutture verrebbero realizzate furi dalla cornice della gara europea, ossia con procedura negoziata.

[6] ll Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR) è costituito dalla rete degli enti locali che per la realizzazione di progetti di accoglienza integrata accedono, nei limiti delle risorse disponibili, al Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo. A livello territoriale gli enti locali, con il prezioso supporto delle realtà del terzo settore, garantiscono interventi di “accoglienza integrata” che superano la sola distribuzione di vitto e alloggio, prevedendo in modo complementare anche misure di informazione, accompagnamento, assistenza e orientamento, attraverso la costruzione di percorsi individuali di inserimento socioeconomico.

22 settembre 2018