Sciascia: coraggioso cercatore di verità
L’8 gennaio 1921 nasceva Leonardo Sciascia, intellettuale e in quanto tale pungolo del potere e non, come rivendicò lo stesso autore di Racalmuto citando Pirandello, mero “scrittore di parole”.
In quest’ottica critica Sciascia scrutinò la giustizia, come testimoniato dal motto pascaliano che gli fu caro: “non potendo fare che ciò che è giusto fosse forte, abbiamo fatto che ciò che è forte fosse giusto”.
Ebbene l’opera dello scrittore siciliano è percorsa da tale tensione tra diritto e forza, laddove non sempre, anzi quasi mai, le ragioni del diritto trionfano.
Tuttavia, a dispetto della diffidenza attribuitagli, Sciascia ha tratteggiato due fulgidi servitori dello Stato: l’integerrimo capitano Bellodi del “Giorno della civetta” e il piccolo giudice di “Porte aperte”. Il primo aveva “visto sorgere la legge e questa legge che assicurava libertà e giustizia, la legge della Repubblica, serviva e faceva rispettare” laddove “l’autorità di cui era investito considerava come un chirurgo considera il bisturi: uno strumento da usare con precauzione, con precisione, con sicurezza; che riteneva la legge scaturita dall’idea di giustizia e alla giustizia congiunto ogni atto che dalla legge movesse”. La considerazione alta del diritto rifulge anche in Porte aperte, quando Sciascia definisce Matteotti il più implacabile oppositore del fascismo perché “parlava in nome del diritto”. In nome del diritto parla anche il piccolo giudice che, posto di fronte al dilemma tra convenienza e scienza, sceglie la seconda via, impervia, ma aderente al diritto. L’integrità di quel giudice emerge dalla prima pagina in cui al conveniente “come la si pensa”, oppone un coraggioso e cartesiano “io penso”, frutto del dubitare fecondo. Ad essa associa l’empatia immaginando lo spazio della speranza del condannato come risultato della giusta sanzione presupposto della rieducazione. Specularmente al condannato a morte dello Straniero di Camus, il piccolo giudice di Sciascia, rifiutando la pena di morte, afferma il valore della vita: “o questa nostra vita è soltanto caso e assurdità e vale soltanto in sé e dunque viverla ancora per qualche anno, per qualche mese o giorno appare come un dono; o invece è parte, questa nostra vita, di un disegno imperscrutabile: e allora varrà quest’agonia a consegnare quest’uomo a un qualche aldilà con più pensieri, con più pensiero, magari con più follia, se non vogliamo dire con più religione”.
Vero è che Bellodi e il piccolo giudice possono apparire sconfitti, laddove Sciascia osservò amaramente che vincitore nei Promessi Sposi è il pavido Don Abbondio. Tuttavia, in quella tensione tra giustizia e forza, ciò che parla ancora a noi oggi attraverso le pagine di Sciascia è, come scritto da altri[1], “la ricerca della verità che deve perseguire, nei limiti che la legge gli assegna, ogni giudice, ogni magistrato”.
In questa prospettiva, proprio in Sciascia emerge come valga molto più la coraggiosa sconfitta di Bellodi e del piccolo giudice che la pavida vittoria di Don Abbondio.
Claudia Malafronte
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