Non discriminiamo, anche nei ricordi
È il 6 luglio 1957, il sole è rovente, il termometro segna trentacinque gradi all’ombra, sugli spalti di Wimbledon la Regina Elisabetta gode dello spettacolo del tennis giocato sull’erba e applaude il vincitore, anzi la vincitrice, di quell’anno, del più antico evento della storia del tennis: è Althea Gibson, trent’anni, pelle colore ebano per un metro e ottanta di altezza, prima donna afroamericana a vincere lo Slam d’Inghilterra in una disciplina, quella del tennis, quasi esclusivamente d’appannaggio dei bianchi in anni in cui la segregazione razziale è ancora dominante in ogni settore sociale.
Di quella giornata la giovane vincitrice ricorderà: “Stringere la mano alla Regina d’Inghilterra è un bel passo in avanti rispetto a doversi sedere nella parte riservata ai neri sull’autobus per andare in centro a Wilmington, nella Carolina del Nord”[1].
Il trionfo di Althea non è tuttavia improvvisato, la vittoria travolgente di quel fortunato anno è infatti preceduta da sacrifici, discriminazioni e sconfitte.
Nata in una fattoria della Carolina del Sud, figlia di emigrati raccoglitori di cotone, in seguito alla Grande Depressione è costretta a trasferirsi con la famiglia in città, ad Harlem, dove inizia a frequentare il campo da paddle che si trova proprio dinanzi alla prima casa presa in affitto dai genitori ed a soli dodici anni diviene la campionessa cittadina di quella specialità; il passaggio al tennis non è tuttavia immediato, infatti racchette e palline sono un privilegio per bianchi e l’accesso ai campi per gli allenamenti è inibito ai neri, così Althea è costretta ad allenamenti clandestini che la stessa, anni dopo, ricorderà addirittura come insegnamento: “Grazie a quegli allenamenti clandestini ho imparato a percepire le linee, a sentirle.”[2].
Le difficoltà nella preparazione atletica si affiancano alle continue disparità sociali che la giovane sportiva deve affrontare: gli alberghi non le offrono ospitalità quando inizia a partecipare ai tornei e per la discesa in campo nelle prime gare agonistiche deve ricorrere alla porta di servizio degli impianti sportivi e non può servirsi degli spogliatoi[3], non stupisce allora che la sua partecipazione, nel 1950, ai Campionati Americani a Forest Hills abbia sortito grandissimo scalpore.
Bud Collins, scrittore americano di tennis, di lei dice: “Nessun giocatore ha dovuto superare più ostacoli per diventare un campione di Althea Gibson, the first black a vincere a Wimbledon e a Forest Hills”, ed infatti Althea non si arrende, nonostante gli scarsissimi introiti e le continue discriminazioni, perseverando negli allenamenti e nelle partecipazioni ai giochi, non demordendo neppure dinanzi alla sconfitta agli U.S. Open del 1956, arriva a trionfare in quei giochi nel 1957 quando primeggia anche a Wimbledon.
Nel 1957 e nel 1958 è al primo posto nel ranking mondiale.
A soli trentuno anni, impossibilitata a proseguire il gioco a così alti livelli, anche a causa di difficoltà economiche dovute ai modestissimi introiti, nonostante le grandi vittorie, si ritira dal mondo del tennis agonistico.
Non solo Jesse Owens e Muhammad Alì, ma pure Althea Gibson merita di essere ricordata come esempio di vittoria, sia nello sport, sia contro le discriminazioni che devono essere combattute anche nella memoria di quegli anni.
Chiara Semenza
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