Rosario Livatino, la forza dell’umiltà
Il 21 settembre 1990, Rosario Livatino fu ucciso mentre stava andando al lavoro, in tribunale ad Agrigento. La sua automobile, una vecchia Ford Fiesta amaranto, su cui – come ricordano ancora gli amici – agganciava la cintura appena salito, fu speronata da quella di quattro killer appartenenti alla Stidda agrigentina; Livatino cercò di scappare a piedi nei campi, ma fu subito raggiunto da svariati colpi di pistola.
Rosario Livatino, nato a Canicattì, aveva 37 anni e fino al 1989 aveva svolto le funzioni di pubblico ministero presso la Procura di Agrigento, poi si era trasferito al tribunale di Agrigento. Allora non c’erano limitazioni al cambio di funzioni e di certo nessuno poté mai dolersi di questo nel suo caso.
Nel 1982 Livatino aveva seguito, tra le altre, un’indagine sui finanziamenti regionali ricevuti dalle cooperative giovanili di Porto Empedocle. Nello stesso periodo, si era occupato, insieme ad altri sostituti, della prima vera indagine sulla mafia agrigentina, poi sfociata nel maxiprocesso su Cosa Nostra nei territori di Agrigento, Canicattì, Campobello di Licata, Porto Empedocle, Siculiana e Ribera, celebrato nel 1987 e concluso con quaranta condanne.
Per anni la figura del magistrato è stata conosciuta più per gli appellativi ricevuti che per quanto aveva fatto nella sua vita: il famoso “giudice ragazzino” di Francesco Cossiga, poi smentito; il “santocchio” di Giuseppe Di Caro, capo della "famiglia" di Canicattì che abitava nello stesso palazzo di Livatino. Come se la giovane età e la solida fede cristiana fossero motivi per sminuire l’impegno, la capacità e l’integrità del magistrato.
Certamente Rosario Livatino era uomo riservato, addirittura schivo. La sua ex insegnante racconta che, da giudice di corte d’assise, si era nascosto dietro a una colonna del tribunale per non farsi vedere dai giornalisti che lo cercavano per strappargli qualche dichiarazione[1]. La timidezza non gli impediva, però, di avere posizioni rigorose, che testimoniava con determinazione e coraggio. Rosario Livatino credeva nella figura di un magistrato fortemente etico, rigorosamente indipendente, aperto al dialogo e rispettoso di tutte le parti, in particolare della condizione dell’imputato. Con costanza ha sostenuto questo suo credo nei propri scritti e con le proprie azioni. Consapevole del rischio che correva, aveva deciso di non sposarsi e ogni giorno si spostava da casa all’ufficio con la sua automobile, senza scorta.
Nella ripresa filmata in occasione di un anniversario dell’Arma dei Carabinieri[2], poiché l’operatore televisivo lo sta inquadrando di straforo, Livatino, seduto in mezzo ad altre persone, si copre il volto con una mano: lo si vede mentre gli occhi spiano tra le dita, con un gesto buffo, quasi infantile; e, quando viene chiamato per consegnare il riconoscimento, salta in piedi e si dirige verso il carabiniere con passo elastico, il volto aperto, un sorriso sicuro.
Quell’immagine attraversa i decenni in un lampo e ci porta, fortissimo, intatto, un messaggio di coraggio e umiltà.
Camilla Sommariva
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