Il Diario di un giudice
che racconta anche di oggi

Chi fu Dante Troisi? Arruolato volontario nella seconda guerra mondiale, deportato negli Stati Uniti, poi magistrato e infine scrittore di rango. Nato il 21 aprile 1920, Troisi scrisse l’opera letteraria sul mestiere del giudice probabilmente più importante, paragonata da molti allo straordinario “Elogio dei giudici scritto da un avvocato” di Piero Calamadrei.

Per le istituzioni austere del 1955, l’anno della pubblicazione, “Diario di un giudice” fu un caso, che indusse un allora giovanissimo Aldo Moro, Ministro della giustizia, a esercitare l’azione disciplinare nei confronti dell’autore, su richiesta dell’avvocato e parlamentare missino Titta Madia.

Calando i propri racconti in un ufficio giudiziario di provincia, qual era la sua prima sede a Cassino, Troisi rappresentò con una serie di racconti un’umanità dolente, umile, piegata dal peso di una giustizia amministrata da sacerdoti che si atteggiano con impassibilità e alterigia, ma in realtà tormentati, spesso peccatori peggiori dei loro accusati. Con una prosa asciutta, capace di tracciare ritratti e gesti folgoranti, diede vita a una confessione pubblica, nella quale i giudici sono come monaci di un convento, “entrambi deformati dai peccati e dai reati”[1].

Incolpato di diffamazione dell’Istituzione, malgrado la difesa pubblica da parte d’intellettuali autorevoli come Arturo Carlo Jemolo e, soprattutto, Alessandro Galante Garrone, Troisi subirà la sanzione dell’ammonimento, convertita nella censura in grado di appello.

L’interesse, se non il successo, di Diario di un giudice lo indurranno però a proseguire l’attività letteraria, ottenendo numerosi riconoscimenti pubblici. Nel 1974, dopo la perdita della moglie, lascerà la magistratura (“i giudici ad un certo punto sono usciti dal loro chiuso recinto per venire allo scoperto. Cessata la loro sacralità si sono trovati come esposti”)[2]. Morirà nel 1989.

Mille citazioni potrebbero dire della modernità del “Diario di un giudice”. Per chi giudica di mestiere vale la pena leggerlo o, meglio, rileggerlo appena si avverta un segnale del proprio distacco dalla persona, sventurata o meno che sia, che abbia il nome trascritto su un fascicolo processuale. Vale la pena confrontarsi con la moralità laica e sofferta di Troisi, col pericolo di sentenze fredde e lontane, col pensiero rivolto ai suoi personaggi, colti nello stupore per una giustizia a loro incomprensibile.

Oggi si assiste a uno scivolamento progressivo verso un processo, soprattutto quello civile, che creerebbe ancora maggiore lontananza tra giudice e parti, distanziate da uno schermo o da memoria scritta. Oggi la magistratura si chiama a raccolta contro una riforma e nella difesa dei diritti dei cittadini. Oggi più che mai, dunque, vale la pena domandarsi senza reticenze in che misura i giudici siano capaci davvero di distribuire i torti e le ragioni senza imbracciare il codice come un libro liturgico, per conservare quella credibilità data dall’amministrare la giustizia con umanità.

Marcello Basilico

[1] Diario di un giudice, Sellerio, 2012, p. 109.
[2] P. Beneduce, Pagine in causa. Processo alla giustizia e pratiche del perturbante nel Diario di un giudice, Editoriale scientifica, 2016, p. 148.

Il Passato talvolta ritorna.
Se non ritorna, forse non è passato.

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