In ricordo e in onore di Guido Galli, a 45 anni dalla sua scomparsa
1. Una breve premessa[1]
Sono passati 45 anni dall’omicidio di Guido Galli (19 marzo 1980), ucciso a Milano da Prima Linea davanti ad un’aula della Università Statale di Milano dove stava per tenere una lezione ai suoi studenti.
Nonostante il tempo trascorso, non mi stanco di parlare e scrivere di Guido, come di Emilio Alessandrini e di altre vittime del terrorismo e della mafia.
Non è un rituale, perché lo faccio allora?
Non solo per tutto ciò che mi legava a loro, ma anche perché conoscere il passato serve per l’oggi e per il futuro di tutti, specie nel contesto storico e sociale in cui viviamo ed in cui sono tanti i giovani magistrati ed i giovani avvocati che nulla conoscono delle storie di Guido ed Emilio: qualcuno pensa, addirittura, che siano morti sopraffatti dal lavoro, mentre il lavoro dava loro spinta ed energia.
Talvolta mi chiedo, però, cosa oggi Guido Galli – parlo soprattutto di lui in questo ricordo – penserebbe e scriverebbe a proposito di tanti temi che impegnano la giustizia e la nostra società: ad es., l’immigrazione e la xenofobia che gli interventi legislativi in quel campo ormai scatenano da quasi vent’anni, le riforme nel settore della giustizia che mettono a rischio l’equilibrio tra i poteri dello Stato ed i diritti fondamentali dei cittadini così come i mutamenti costituzionali in cantiere per garantire la governabilità o, infine, la strumentalizzazione della sicurezza per giustificare leggi e progetti di legge di stampo populistico.
Ma, pur così legato al suo insegnamento, è chiaro che non posso parlare come se fossi la sua voce. Ripetendo magari cose già scritte, preferisco allora raccontare fatti e storia della sua vita, non solo professionale: chiunque potrà così maturare la sua opinione su come Guido Galli si orienterebbe e parlerebbe nei tempi che stiamo vivendo. Parlare di Guido e descrivere il suo essere stato magistrato e uomo serviranno infatti ad orientarci autonomamente nella confusione e nella nebbia che ci circondano. O almeno è questo che mi auguro.
Guido amava il suo lavoro senza autocelebrazioni: si impegnava serenamente senza mai chiedersi se ciò avrebbe giovato alla sua carriera, senza aspirare al cangiante consenso delle piazze, senza denunciare isolamenti e ostacoli (come talvolta avrebbe potuto fare). Galli voleva capire prima di decidere, studiando le ragioni che muovevano terroristi e criminali di ogni tipo, impugnando il codice come una bandiera, quel codice che aveva anche in mano quando ci ha lasciato.
2. Le funzioni che Guido Galli ha svolto nel corso della sua attività professionale: un argomento invincibile contro la separazione delle carriere dei magistrati
Guido Galli entrò in magistratura nel 1959 e venne ucciso il 19 marzo del 1980, dopo 21 anni di lavoro, un tempo certamente lungo, ma abbastanza breve nella “carriera” dei magistrati. Ebbene, in 21 anni, Guido Galli, che prima aveva anche superato gli esami di procuratore legale, ha cambiato più volte le sue funzioni di magistrato all’interno del distretto di Milano. Galli iniziò il suo lavoro come sostituto procuratore nella Procura di Milano, ma dopo due anni, all’inizio del 1962, chiese ed ottenne di fare il pretore; nel marzo del 1968 ritornò a lavorare come pubblico ministero in Procura, acquisendo una importante e raffinata specializzazione in tema di diritto penale dell’economia e di crisi d’impresa.
Ma negli anni ‘70 Guido Galli passò ad esercitare le funzioni giudicanti presso il Tribunale di Milano ricoprendo prima la funzione di giudice presso la terza sezione penale, poi quella di Presidente della VI sezione penale. Scelse poi di lasciare questo ruolo semidirettivo chiedendo di diventare Giudice Istruttore e quindi svolgere indagini: rimase nell’Ufficio Istruzione fino al giorno della sua tragica scomparsa, avvenuta proprio quando – su sua domanda – stava per tornare alla Procura di Milano ufficio in cui era molto atteso per la sua grande esperienza ed il suo prestigio.
In ognuno dei citati compiti giudiziari, Guido aveva dimostrato di possedere una cultura giurisdizionale eccezionale, fonte del suo pieno rispetto per i diritti di ogni imputato: fu giudice e pubblico ministero nel modo migliore possibile, sempre a Milano e la sua storia – al pari di quelle di altri grandi magistrati – ci insegna che ciascuna funzione arricchisce lo svolgimento dell’altra e ciascuna e tutte devono essere mosse dal desiderio di “fare qualche cosa per gli altri”, come scrisse Galli, nel 1957, in una bella lettera al padre, spiegandogli perché aveva deciso di fare il magistrato .
3. L’attività associativa
Guido Galli era anche attivo sul piano associativo, tanto da assumere anche il ruolo di componente e segretario della giunta esecutiva della sezione distrettuale di Milano dell’Associazione Nazionale Magistrati. In tale veste, insieme agli altri componenti della giunta stessa, venne sottoposto ad un procedimento disciplinare riguardante la decisione della Corte di Cassazione del 13 ottobre 1972 di rimettere il processo per la strage di Piazza Fontana (“filone” Valpreda) da Milano a Catanzaro per gravi motivi di ordine pubblico.
Guido Galli, unitamente ai colleghi della Giunta, convocò l’assemblea dei magistrati di Milano, contribuendo ad elaborare un documento contenente rilievi critici sulla iniziativa del Procuratore della Repubblica di Milano di chiedere la rimessione del processo e sulla decisione della Corte di Cassazione di rimettere il processo a Catanzaro. Il testo del deliberato dell’Assemblea, approvato il 18 ottobre 1972 da oltre 200 magistrati, con un solo voto contrario, appare ancora oggi molto incisivo nelle critiche alla iniziativa ed alla decisione predette, e venne redatto, come vi si legge, “assolvendo il preciso dovere di tutelare gli interessi morali della Magistratura”, chiedendo il rispetto del principio del giudice naturale e dei diritti degli imputati. L’iniziativa della convocazione dell’assemblea, ed il testo del deliberato, vennero considerati lesivi del prestigio dell’ordine giudiziario da parte del Procuratore Generale della Corte di Cassazione, e Guido Galli (unitamente a tre colleghi) venne sottoposto a procedimento disciplinare per avere elaborato e approvato l’o.d.g.
La decisione della Sezione Disciplinare del CSM intervenne il 3.12.1974. Riconobbe la sussistenza sul piano oggettivo del fatto disciplinare, ma escluse l’illecito dal punto di vista dell’elemento psicologico, con motivazioni quasi offensive, ritenendo che “è notorio che in riunioni assembleari ... è difficile e qualche volta impossibile il raccoglimento necessario per una conveniente meditazione del testo della mozione finale”, anche a causa della “frettolosa elaborazione degli ultimi minuti”. Quel documento venne inoltrato da Guido Galli al Segretario generale del CSM con richiesta di trasmetterlo al Presidente, al vicepresidente ed a tutti i Consiglieri del Consiglio.
Oggi, niente e nessuno avrebbe potuto evitare a Galli l’accusa di essere una «toga rossa» e difficilmente gli sarebbero state risparmiate severe reprimende per l’impegno all’interno dell’Associazione Magistrati.
La magistratura vive oggi nel pieno della ben nota patologia del sistema delle “correnti”, emersa con chiarezza negli ultimi anni, che deve essere superata in modo radicale a partire da un profondo rinnovamento culturale e prendendo ad esempio episodi come quello appena ricordato così da contrastare la tesi secondo cui l’associazionismo è una malattia da sradicare (e addirittura da vietare con legge), mentre è invece insostituibile per la difesa dei principi costituzionali scritti a tutela dell’ordine giudiziario.
4. Guido Galli e gli “anni di piombo”
Voglio parlare adesso del rapporto personale che mi ha legato a Guido negli anni di piombo, fino al suo omicidio.
Nel corso della mia carriera di magistrato, ho sempre svolto funzioni di pubblico ministero, prendendo servizio a metà di settembre del 1976, dopo il tirocinio, presso la Procura della Repubblica di Milano e venendo assegnato – a partire dalla metà del 1977 – al settore del terrorismo interno di cui mi sarei occupato a tempo pieno fino al termine degli anni di piombo.
Il 13 settembre 1978, furono arrestati in una base di via Negroli a Milano il latitante Corrado Alunni ed una terrorista del varesotto. Nella base furono sequestrati numerosi documenti anche manoscritti, armi, esplosivi ed altro. Fui titolare della conseguente inchiesta con il collega Luigi De Liguori. Quaranta giorni dopo l’arresto dei terroristi, come il codice di procedura penale allora prevedeva, “formalizzammo” il processo, che fu assegnato a Guido Galli, giudice istruttore. Galli lo portò avanti con dedizione totale, sapendo perfettamente quali erano i rischi che correva, ma senza farlo pesare a nessuno, senza assumere atteggiamenti particolari, in un momento storico in cui occuparsi di terrorismo non era cosa molto ambita sia per l’assoluta pericolosità dell’impegno, sia perché non vi era neppure una visione unitaria all’interno della magistratura. All’Ufficio Istruzione del Tribunale di Milano, ad esempio, l’idea di creare un gruppo di giudici istruttori specializzati nel contrasto al terrorismo era oggetto di discussioni e dubbi, contrariamente a quanto già avvenuto a Torino
Dopo la “formalizzazione” del processo, ebbi modo di lavorare quotidianamente a stretto contatto con Guido, l’uomo ed il giudice migliore che abbia mai conosciuto.
Galli si lanciò nell’impresa con l’entusiasmo di un ragazzo e, grazie a lui, quell’inchiesta si rivelò, per Milano, la «madre» delle indagini in materia di terrorismo: per me, l’irripetibile occasione di diventare suo amico.
L’ufficio di Guido era costituito da una stanza piccolissima al secondo piano del palazzo di Giustizia, proprio davanti alla porta dell’ascensore. La scrivania scompariva tra le carte, ma lui non si lamentava mai di nulla e non pensava certo alle statistiche dei processi definiti (preoccupazione oggi sempre più diffusa). Guido non fu mai sottoposto a misure di protezione, perché nessuno dei dirigenti dell’Ufficio istruzione chiese una scorta per lui, che non si lamentò mai neppure di questo.
Si stabilì tra noi un rapporto stupendo. Lavoravamo sempre insieme, passando anche lunghe serate a casa sua piena di figli (cinque: Alessandra, Carla, Giuseppe, Riccardo e Paolo) sicché la nostra familiarità si arricchì anche sul piano umano.
Al termine della prima parte del nostro lavoro, gli presentai una lunga e complessa richiesta di “mandati di cattura” in cui motivatamente sostenevo la responsabilità dei capi e dei «quadri» di rilievo dell’organizzazione per i delitti commessi e rivendicati dalla stessa, pur in assenza di prove dirette della loro responsabilità materiale ed ideativa. Guido accolse la tesi con assoluta convinzione, anzi la precisò e la arricchì da par suo nei mandati di cattura che emise. La tesi – che nulla aveva a che fare con la teoria del “non potevano non sapere”, così cara ad alcuni magistrati ansiosi di incriminare per deduzione logica e di scrivere la storia anziché di cercare prove e scrivere solide sentenze – fu accolta dalle Corti d’Assise di primo e secondo grado che condannarono gli imputati e passò anche in Cassazione: diventò la base giuridica e il significativo precedente giurisprudenziale per affermare la responsabilità dei componenti delle varie commissioni e «cupole» per i più efferati delitti di mafia.
5. La risposta istituzionale al terrorismo
E proprio in quel periodo, comunque dopo la strage di via Fani, si manifestò l’iniziativa autonoma di pubblici ministeri e giudici istruttori che, in assenza di interventi legislativi o di direttive politiche, diedero vita a un coordinamento spontaneo tra gli uffici giudiziari interessati dal fenomeno, non previsto per legge, fino alla creazione, al loro interno, di gruppi specializzati nel settore del terrorismo. E Guido Galli, fino alla sua scomparsa, fu uno dei protagonisti principali di questa svolta strategica della magistratura nel contrasto del terrorismo.
Una svolta che determinò una simbiosi positiva tra polizia giudiziaria ed autorità giudiziaria, con piena attuazione del citato principio costituzionale della sottoposizione della prima (la cui autonomia investigativa non venne, né viene certo limitata) alle direttive della seconda e con esclusione dei Servizi d’informazione da ogni compito d’indagine penale per le ragioni appresso specificate.
In quegli anni inoltre – grazie anche alle iniziative del Ministro dell’Interno Virginio Rognoni – furono varati alcuni interventi legislativi importanti che talvolta determinarono il rischio di lesione dei diritti individuali, ma che, grazie proprio alle interpretazioni e prassi applicative studiate da magistrati come Galli, si rivelarono decisivi per la sconfitta del terrorismo. Basti pensare al D.L. 15 dicembre 1979 n. 625, conv. con L. 6.2.1980 n. 15 (cioè, circa un mese e mezzo prima di quel tragico 19 marzo), che introdusse la normativa premiale per i collaboratori processuali.
Come disse il compianto prof. Vittorio Grevi, non a caso legato da particolare amicizia e stima a Guido, alla fine “le istituzioni avevano tenuto” e se il terrorismo era stato sconfitto ciò non soltanto era dipeso dalle capacità delle forze di polizia e della magistratura, ma era stato determinato anche da un corpo legislativo che nel suo complesso aveva continuato ad assicurare la tutela dei diritti degli imputati. Il tutto nel quadro di una corretta interlocuzione dialettica della magistratura con l’Esecutivo in un pur difficile periodo durante il quale, però, nessuna autorità politica pensava di poter negare a giudici e pm diritto di critica e di interventi tecnici durante la fase di elaborazione delle leggi e persino nel corso della loro interpretazione nella fase applicativa.
6. Il trasferimento incompiuto di Guido Galli alla Procura della Repubblica di Milano
Ritornando a Guido Galli, ricordo quando mi confidò la sua amarezza a causa del clima che si respirava nel suo Ufficio. Era successo che, in una riunione dei giudici istruttori di Milano, alcuni suoi colleghi avevano criticato la teorizzazione del giudice istruttore specializzato nelle inchieste sul terrorismo, esprimendo la preoccupazione che, in tal modo, il giudice istruttore potesse diventare un giudice speciale, con conseguente rischio per le garanzie che spettano all’imputato. Di fronte a queste affermazioni, segno di confusione tra doverosa necessità di tutela di tali diritti e ragioni della specializzazione professionale, nient’affatto contrastante con il principio del giudice naturale, Guido era rimasto così stupito da non tentare neppure una replica.
Comunque, anche a causa di quel clima, Guido Galli decise di chiedere il trasferimento dall’Ufficio istruzione e di venire a lavorare in Procura.
Intanto, avevamo chiuso le nostre principali indagini: Guido aveva coniugato mirabilmente rispetto delle garanzie e dovere di repressione, stupendo tutti per la rapidità con cui aveva concluso quella prima maxi-inchiesta milanese di terrorismo. Io avevo depositato la mia requisitoria scritta il 1° agosto e lui la sua ordinanza di rinvio a giudizio l’11 settembre 1979: un solo anno era trascorso dall’arresto di Alunni e di decine di terroristi, e anche le inchieste-stralcio che ne erano scaturite erano ormai chiuse, tutte nell’assoluto rispetto dei diritti degli imputati.
Galli, che nei suoi provvedimenti non lasciava spazio alla retorica e puntava al sodo descrivendo nei dettagli i fatti e le circostanze rilevanti, non rilasciò mai interviste per celebrare le inchieste che aveva portato a termine o per includere nel proprio ruolo di giudice quello di moralizzatore e storico, prassi purtroppo oggi in espansione.
Iniziò così in Corte d’Assise il dibattimento contro Alunni e compagni, ma Guido già spingeva per nuovi progetti di lavoro.
Un giorno mi chiese di andare in Università a parlare ai suoi studenti di criminologia: adesso i magistrati lo fanno spesso, ma allora era rarissimo e per me era comunque la prima volta. Concordammo una data attorno al 20 marzo per farlo. Intanto, la sua richiesta di passare alla Procura fu accolta, ma Guido non ebbe il tempo di tornare pubblico ministero per la terza volta perché fu ucciso il 19 marzo 1980, davanti all’aula dell’Università Statale di Milano dove attendeva di entrare per tenere la sua lezione. Aveva quasi quarantotto anni.
7. L’omicidio nell’ Università
È ampiamente noto anche il valore di docente di Guido Galli (presso le Università Statali di Modena e di Milano) e dei suoi scritti accademici.
Pur da magistrato, infatti, Guido Galli aveva scelto di continuare a studiare ed insegnare, in una prospettiva di apertura verso il mondo esterno alla magistratura, di confronto con i giovani, con il mondo dell’Accademia e dell’Avvocatura.
Nel 1963, Galli inizia la carriera universitaria, divenendo in breve professore incaricato presso la cattedra di antropologia criminale presso l’università di Modena fino al 1976, quando diventerà professore incaricato di criminologia alla facoltà di giurisprudenza della Statale di Milano, mostrandosi sempre un docente appassionato e un fine giurista, come testimoniato dai suoi diversi saggi fra cui la celebre monografia “La politica criminale in Italia negli anni 1974-1977” (Cortina, 1978), nella cui premessa Guido Galli scriveva: “Viviamo, certo, tempi scuri: ma gli strumenti per uscirne non devono essere totalmente inidonei alla difesa delle istituzioni e della vita dell’individuo; od indiscriminatamente compressivi della libertà individuale, in nome di ‘ragioni di emergenza’ il cui sbocco frequente ci è purtroppo ben noto”.
Parole che – senza forzature – consentono un’attualizzazione del pensiero di Guido Galli, secondo cui le esigenze di sicurezza sociale non possono mai costituire ragione di deroga ai diritti fondamentali dei cittadini.
Proprio l’Università fu teatro del suo ultimo giorno. Ricordo quelle ore come le stessi vivendo adesso (e ciò ripeto ogni volta che ne parlo): al mattino di quel 19 marzo, Guido mi dice che a mezzogiorno deve andare a casa perché è San Giuseppe e si festeggia l’onomastico di suo figlio. Anche quel giorno, lo accompagno a casa con la mia scorta. Mi dice che sarebbe andato nel pomeriggio; mi telefona invece il capo della Digos: «Armando, corri in università, la Statale...». Capisco subito. Non lo lascio finire, esco dall’ufficio urlando e corro a piedi alla Statale, a poca distanza dal Tribunale. Non c’è ancora molta gente, ricordo due capitani dei carabinieri e un funzionario della Digos che cercano di tenermi lontano da Guido Galli perché sanno che cosa lui fosse per me. Il vero mio maestro, il fratello maggiore che non ho mai avuto. È steso per terra, di fronte all’aula 309 dove avrebbe dovuto svolgere la sua lezione, con il codice aperto a meno di mezzo metro da lui, vicino alla mano. Sulla sua agendina telefonica c’è scritto: «Se mi succede qualcosa telefonate ad Armando Spataro tel. n. ..». Ho ancora la fotocopia di quella pagina. La figlia Alessandra frequentava la facoltà di Giurisprudenza e quel giorno era alla Statale. Venne a sapere dell’attentato e si avvicinò al papà. Gli amici le stavano attorno.
Il «Corriere della Sera» pubblicò il giorno successivo, in prima pagina, la foto del corridoio della Statale dove era avvenuto l’omicidio, con in primo piano il codice aperto, ancora per terra. Sotto la foto, un articolo di Giovanni Testori che diceva: «Il codice che gli era caduto di mano resta aperto davanti agli occhi atterriti dei giovani e di noi tutti. Aperto a dirci cosa? Che la legge dell’umana convivenza è più forte di ogni Caino.».
Non ho avuto il tempo, in quel marzo del 1980, di parlare ai suoi studenti come Guido mi aveva invitato a fare, ma ho avuto la fortuna di fare da magistrato affidatario per il tirocinio di Alessandra e Carla, poi entrambe diventate giudici, due tra i migliori “uditori” (come allora si chiamavano i tirocinanti) che abbia mai avuto la fortuna di seguire, così diverse tra loro ma entrambe eguali al loro padre. Spero di avere trasmesso loro anche solo una minima parte di quel che Guido aveva insegnato a me.
8. Le parole del volantino di rivendicazione dell’omicidio di Guido Galli e quelle dei suoi familiari
Dal comunicato di Prima Linea che rivendicò l’uccisione di Guido Galli:
Oggi 19 marzo 1980, alle ore 16 e 50 un gruppo di fuoco della organizzazione comunista Prima Linea ha giustiziato con tre colpi calibro 38 Spl il giudice Guido Galli dell’ufficio istruzione del tribunale di Milano[...]. Galli appartiene alla frazione riformista e garantista della magistratura, impegnato in prima persona nella battaglia per ricostruire l’ufficio istruzione di Milano come un centro di lavoro giudiziario efficiente, adeguato alle necessità di ristrutturazione, di nuova divisione del lavoro dell’apparato giudiziario, alla necessità di far fronte alle contraddizioni crescenti del lavoro dei magistrati di fronte all’allargamento dei terreni d’intervento, di fronte alla contemporanea crescente paralisi del lavoro di produzione legislativa delle camere [...].
Paradossalmente quel volantino conteneva un alto ed involontario elogio di Galli: “lo uccisero, nella follia omicida di quegli anni, per il suo essere magistrato rigoroso, capace, garantista”, come scrisse la GEC dell’ANM in un documento del 19 marzo 2020).
Queste invece le parole di Bianca, Alessandra e Carla Galli:
“A quelli che hanno ucciso mio marito e nostro padre. Abbiamo letto il vostro volantino: non l’abbiamo capito… il 19 marzo avete fatto di Guido un eroe e lui non avrebbe mai voluto esserlo”.
Parole che fanno riflettere come quelle che i familiari di Guido vollero che fosse incise sulla lapide affissa nel palazzo di Giustizia di Milano, al secondo piano, accanto alla porticina del piccolo ufficio dell’indimenticabile Guido:
“Avete semplicemente annientato il suo corpo, ma non riuscirete mai a distruggere quello che ormai ha dato per il lavoro, la famiglia, la società.
La luce del suo spirito brillerà sempre annientando le tenebre nelle quali vi dibattete”
Sono parole che servono per conoscere, per imparare e per rinnovare l’impegno per la tutela della legalità. Specie quando i tempi sono difficili, è bene coltivare la memoria, sperando che possa tornare a motivare tutti coloro che operano nel settore giustizia e nella società civile, e soprattutto a motivare i giovani magistrati.
Armando Spataro
Il Passato talvolta ritorna.
Se non ritorna, forse non è passato.
Occuparsi di giustizia comporta anche conoscere il tempo e la storia, luoghi dove sono sorti i diritti, ma anche i bisogni e il sentire degli individui e delle collettività. Con “Ieri e oggi” facciamo un salto settimanale nel passato, un modo diverso per interrogarci sull’attualità.
Attendiamo i contributi di tutti.
(giornata internazionale contro il lavoro minorile)