Diverse funzioni, un solo magistrato

Il 18 luglio 1992 venne redatta, dal Procuratore della Repubblica di Palermo, la “dichiarazione di idoneità alle funzioni direttive superiori” del dottor Paolo Borsellino “procuratore aggiunto nella Procursa della Repubblica presso il Tribunale di Palermo”, ufficio nel quale aveva preso possesso pochi mesi prima. Nel ripercorrere la carriera, emerge che il dottor Borsellino, nominato uditore giudiziario con D.M. 11.9.1964, dopo “avere svolto il periodo di tirocinio presso il Tribunale di Palermo dal 21.9.1964, ha esercitato la funzione di Giudice presso il Tribunale di Enna dal 10.9.1965, e successivamente, ha esercitato le funzioni di Pretore” presso diversi uffici, passando al Tribunale di Palermo dal 14.7.1975. Quindi Paolo Borsellino svolse l'incarico di giudice sino a quando gli venne conferito, giusta delibera del C.S.M. dell’11 giugno 1986, l’ufficio direttivo di procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Marsala, lasciando le funzioni giudicanti per quelle requirenti (sul percorso professionale di Paolo Borsellino possono confrontarsi le pagine dedicate sul sito del CSM).

A questa nomina, come noto, seguirono alcune polemiche, ascrivibile essenzialmente alla minore anzianità del nominato, culminate nell’oramai famoso articolo di Leonardo Sciascia sui cd. professionisti dell’antimafia (probabilmente frainteso, e comunque poi oggetto di apposito chiarimento tra lo scrittore di Racalmuto e Borsellino), ma nulla che avesse a che fare col passaggio di funzioni. Oggi, invece, assistiamo ancora una volta al solito dibattito sulla separazione delle carriere, che dovrebbe, come oramai da più lustri si prospetta, condurre a risolvere una delle tante criticità del sistema, offrendo una giustizia più … giusta.

Al di là degli slogan, però, nessuno ha sinora concretamente spiegato perché la separazione delle carriere dovrebbe essere risolutiva ai fini di aumentare la terzietà del giudice e assicurare una risposta migliore e più efficace. L’arricchimento culturale e di preparazione che si scorge invece in chi può transitare senza limiti da un ruolo all’altro (e Paolo Borsellino ne fu certamente un esempio), vivendo esperienze professionali e culturali comuni, la scelta del nostro sistema processuale per un pubblico ministero che comunque è deputato alla ricerca della verità e non a rappresentare semplicemente l’accusa, che guida la polizia giudiziaria da soggetto autonomo rispetto agli altri poteri, il tutto a maggiore garanzia dell’imputato, sono alcuni degli elementi che hanno caratterizzato da sempre la giustizia in Italia.

Certo, oggi quel passaggio che fece Paolo Borsellino è impossibile, per le varie riforme che sino succedute nel tempo, di fatto rendendo il mutamento di funzioni impraticabile e non praticato: dai dati del Consiglio Superiore (riportati in: Paola Filippi, La separazione della carriera dei magistrati proposta e riforma su Giustizia Insieme) emerge che “dal 2006 - anno dell’entrata in vigore dell’art. 13 d.lgs. n. 160/2006 che ha ridotto a quattro il numero massimo di passaggi - al 2021, il numero dei passaggi effettuati dal medesimo magistrato è stato di regola uno solo, salvo trentanove magistrati che hanno effettuato due passaggi, solo un magistrato ne ha effettuati quattro (peraltro in funzioni di legittimità civili)”.

La divergenza di vedute, insomma, tra chi tende alla separazione delle carriere e chi no, più che basarsi su affermazioni manifesto, dovrebbe guardare alle professionalità del passato e soffermarsi con attenzione sulle vere e persistenti criticità del sistema processuale, che di altri interventi ha bisogno. Proprio come Paolo Borsellino ebbe a sottolineare più volte, ad esempio in occasione della uccisione di Rosario Livatino (cfr. Ultima intervista a Paolo Borsellino su Canale Peppinen), invocando interventi organici e strutturali sugli aspetti davvero critici che sono (o dovrebbero essere) sotto gli occhi di tutti.

Giuseppe De Gregorio

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