Il dovere di rendere conto

di Giuseppe Cascini
Candidato nella categoria magistrati requirenti

1. Csm. Sistema elettorale e ruolo politico del Csm

La riforma della legge per la elezione dei componenti togati del Csm fu approvata nel 2002 su iniziativa del Ministro della giustizia dell’epoca, Roberto Castelli, con il dichiarato intento di ridurre il peso delle correnti all’interno del Csm. Lo scopo della riforma, si legge nella relazione ministeriale al disegno di legge, era quello «di valorizzare il rapporto diretto di stima e fiducia tra elettori e candidato, stemperando invece il peso della mediazione esercitata dalle diverse correnti di pensiero dell’associazionismo dei magistrati. Il sistema proposto ha, infatti, il pregio di “premiare” le singole personalità e quindi di impedire ai vari raggruppamenti di dominare la competizione elettorale mediante la semplice ma cogente logica di lista, esaltando le qualità personali, la storia, il curriculum e, in definitiva, le capacità dei singoli candidati … si tratta di un sistema che esalta la persona, l’immagine, la figura, la statura del candidato … appare opportuno privilegiare l’instaurazione di un rapporto di stima e conoscenza personale tra elettore e candidato che superi, pertanto, la mediazione dei gruppi di organizzazione del consenso elettorale».

Nella prima fase di attuazione la legge sembrò produrre, per una sorta di eterogenesi dei fini, un effetto opposto a quello proposto. Le correnti della magistratura associata, infatti, si organizzarono in chiave “difensiva”, presentando “liste bloccate” di candidati in numero corrispondente ai seggi attesi e organizzando una distribuzione del voto su base territoriale tra i candidati designati. In questo modo il numero di candidati per i collegi uninominali finiva per essere pari, o di poco superiore, ai seggi disponibili, con il risultato che l’elettore non aveva praticamente margini di scelta e gli eletti erano in realtà, di fatto, nominati dalle correnti. Per contrastare tale distorsione e restituire agli elettori un potere di selezione degli eletti, alcuni gruppi, all’epoca Magistratura democratica e il Movimento per la giustizia-Articolo 3, organizzarono, in occasione delle elezioni del 2010, una consultazione primaria tra i propri elettori, e nella tornata successiva, 2014, il meccanismo della consultazione primaria fu fatto proprio dalla Anm ed esteso a tutte le correnti.

Nel medio periodo, però, la legge sembra aver raggiunto, almeno in parte, quell’obiettivo di «privilegiare l’instaurazione di un rapporto di stima e conoscenza personale tra elettore e candidato che superi … la mediazione dei gruppi di organizzazione del consenso elettorale». Anche in ragione di alcune dinamiche già storicamente presenti nell’associazionismo giudiziario italiano, infatti, il sistema ha finito per privilegiare il singolo rispetto al gruppo, e per esaltare la organizzazione del consenso su base individuale, o territoriale, a scapito di quella basata su idee e programmi, che era (o almeno avrebbe dovuto essere) la ragion d’essere dei gruppi organizzati.

E ciò ha consentito di realizzare quello che era il reale obiettivo della riforma: ridurre il peso delle correnti all’interno del Csm significava, infatti, ridurre il ruolo politico del Consiglio, ridimensionarne la natura di organo di rilevanza costituzionale, relegandolo al ruolo di un ufficio di gestione del personale di magistratura.

Non è un caso, infatti, che qualche anno dopo la introduzione della riforma il Comitato di presidenza impose ai componenti togati di prendere posto nel plenum in ordine di anzianità di ruolo e non per gruppo di appartenenza, come era sempre stato fino ad allora. In questo modo si voleva certificare, anche su di un piano simbolico, che i gruppi organizzati erano fuori del Consiglio e che i membri eletti vi sedevano uti singuli, in ragione delle proprie qualità personali, come scriveva il Governo nella relazione alla legge,e non in ragione della loro appartenenza ad un gruppo organizzato.

Il risultato, apparentemente paradossale, ma anch’esso conseguente nel disegno riformatore, è stato quello di eliminare di fatto ogni forma di responsabilità politica. I componenti togati del Csm, infatti, per previsione costituzionale, non sono immediatamente rieleggibili e dunque la responsabilità politica del loro operato può ricadere solo sul gruppo che li ha indicati e sostenuti. E se questo viene meno, viene meno anche la responsabilità politica.

In questo modo la politica sembra aver realizzato, almeno in parte, il reale obiettivo della riforma, cioè quello di ridimensionare il ruolo politico del Consiglio superiore della magistratura. L’assenza, o la marginalizzazione, dei gruppi organizzati all’interno del Csm e la esaltazione del ruolo dei singoli e del loro rapporto diretto con l’elettorato, infatti, conduce inevitabilmente, e oggettivamente, ad una maggiore attenzione alle vicende amministrative e gestionali, soprattutto quelle che riguardano la carriera e le aspirazioni dei singoli, rispetto alle questioni generali (o ideali).

Occorre essere consapevoli del fatto che in ogni organismo elettivo la rappresentanza può formarsi soltanto in due modi, anche variamente combinati tra loro, che schematicamente si possono definire per ideali da un lato o per interessi dall’altro.

É del tutto evidente che le correnti della magistratura sono, chi più chi meno, un mix di entrambi. Ma nessuna corrente, nemmeno la più dichiaratamente e spudoratamente votata alla tutela del singolo, rinuncerà mai ad una vocazione e ad una aspirazione ideali, ad una attenzione a principi e valori di carattere generale.

E per quanto possa apparire fastidiosa e stucchevole la distanza che spesso si registra tra le declamazioni di principio e le pratiche concrete, non va sottovalutato che la virtù dell’ipocrisia è la vergogna, che comunque presuppone il riconoscimento, e la consapevolezza, di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato.

Per questo ogni proposta di riforma finalizzata a ridurre il peso delle correnti all’interno del Csm, in ossequio ad un mantra sempre più diffuso, non può far altro che aumentare il peso della rappresentanza per interessi. I detrattori del sistema delle correnti tendono sempre a sottovalutare questo dato. La ricerca del consenso attraverso l’instaurazione di un rapporto di stima e conoscenza personale tra elettore e candidato, per richiamare ancora le parole della illuminante relazione ministeriale al disegno di legge del Governo, è sovente l’anticamera del clientelismo, della tutela di interessi particolari, mentre la mediazione dei gruppi di organizzazione del consenso elettorale che la legge intende superare in realtà è un antidoto, o almeno una remora, rispetto alle pratiche più deteriori.

Piaccia o no, solo la organizzazione del consenso sulla base di progetti ideali, di valori, di tutela di interessi generali può contrastare le degenerazioni del sistema. Insomma, per quanto possa apparire paradossale, l’unico antidoto al correntismo sono proprio le correnti. Solo le correnti, infatti, possono trovare la forza al proprio interno per contrastare le degenerazioni clientelari e corporative del sistema. É impossibile che lo facciano i singoli e ancor meno che lo facciano gruppi organizzati, di carattere locale o personale, finalizzati esclusivamente alla raccolta del consenso.

Insomma, parafrasando W. Churchill, verrebbe da dire che il sistema delle correnti è il peggior sistema al mondo, ad eccezione di tutti gli altri. 

 

2. Responsabilità politica e dovere di rendere conto

Occorre, però, essere consapevoli che solo un drastico cambiamento nel modo di essere dei gruppi organizzati e nel loro rapporto con il potere di gestione all’interno del Csm può consentire la sopravvivenza del modello di governo autonomo disegnato dal costituente.

La crisi di fiducia che attraversa una larga parte del corpo della magistratura nei confronti del sistema di autogoverno è un gravissimo segnale di allarme che non può essere in alcun modo sottovalutato. Certo, siamo un corpo di alti funzionari, culturalmente attrezzati, e dunque è più difficile che soffi, al nostro interno, quel vento dell’antipolitica che oggi attraversa gran parte delle democrazie occidentali.

Ma questo non deve consolare o rassicurare. Le tentazioni della politica di ridurre gli spazi di autonomia e di indipendenza della magistratura, in primo luogo attraverso la riduzione del ruolo del governo autonomo della magistratura, sono sempre attuali. Ne è prova evidente la recente iniziativa delle Camere penali di raccolta di firme su una proposta di riforma costituzionale, che, pur essendo intitolata solo alla separazione delle carriere tra magistrati giudicanti e magistrati requirenti, contiene in realtà, al suo interno, una ben più ampia revisione del modello costituzionale della magistratura, ed in particolare del sistema di governo autonomo.

La proposta, infatti, da un lato introduce la possibilità per il governo di nominare magistrati ordinari, in deroga alla regola del concorso, e dunque la possibilità di incidere pesantemente sulla composizione del corpo della magistratura, dall’altro istituisce due Csm per i quali prevede una composizione paritaria tra componenti eletti dai magistrati e componenti eletti dal Parlamento. In sostanza la fine dell’autogoverno e la creazione di un sistema misto nel quale la politica assumerebbe un ruolo determinante.

É molto probabile che questi temi tornino di attualità già con la prossima legislatura. Ma è del tutto evidente che per contrastare queste iniziative è essenziale che il corpo della magistratura si riconosca e abbia fiducia nel sistema di autogoverno e che sia pronto a lottare per difenderlo.

Se pensiamo a quello che è avvenuto solo una decina di anni fa, dobbiamo con sincerità domandarci se tutti i magistrati oggi sarebbero disposti a partecipare alle inaugurazioni dell’anno giudiziario in toga e con la Costituzione in mano per difendere la funzione costituzionale dell’organo di governo autonomo della magistratura, per difendere il Consiglio superiore della magistratura.

Recuperare la fiducia dei magistrati nel governo autonomo è possibile, ma richiede uno sforzo formidabile in termini di trasparenza e di responsabilità.  

Comunicare e rendere conto, sia sul piano istituzionale che sul piano politico, è l’unico modo per riallacciare i fili della rappresentanza nel sistema di autogoverno, per fare in modo che i magistrati ritornino a vivere e a sentire il Consiglio superiore della magistratura come la propria casa, la casa di tutti noi.

Trasparenza vuol dire incidere sui meccanismi di accesso dei magistrati alle informazioni provenienti dal Csm. Oggi tutti noi riceviamo, sulle mailing-list, informazioni sulle pratiche consiliari, prevalentemente se non esclusivamente in materia di nomine, dai gruppi rappresentati in Csm. Alcuni gruppi continuano poi a coltivare la comunicazione individuale, via sms e quasi in tempo reale, su pratiche di interesse del singolo (con messaggi del tipo: Ciao, sono XY, sono lieto di informarti che la Commissione ha espresso parere positivo alla tua IV valutazione di professionalità).

Se, però, queste informazioni fossero accessibili, in maniera agevole e in tempo reale, sul sito del Csm probabilmente non ci sarebbe bisogno di queste forme di comunicazione, che confondono il piano della informazione istituzionale con quella della comunicazione politica e che fanno apparire come un favore personale la legittima comunicazione di una notizia istituzionale.

Direi di più: ogni informazione ostensibile su una pratica consiliare, dunque tutte le informazioni diverse da quelle che rientrano nella sfera di riservatezza della persona, dovrebbero essere agevolmente accessibili per i magistrati interessati.

Il Csm deve essere, per tutti i magistrati, una casa di vetro e noi tutti, in quanto magistrati e condomini di quella casa, dobbiamo accettare di buon grado che le informazioni sul nostro conto, ovviamente quelle che riguardano il nostro ruolo e la nostra funzione e non certo quelle di carattere privato, siano accessibili agli altri magistrati.

Se tutti i magistrati avessero eguale possibilità di accesso a tutte le informazioni ostensibili di una pratica, nessuno avrebbe bisogno di rivolgersi a qualcuno per ottenere informazioni legittime a titolo di favore.

É questo un tema antico nel nostro Paese, e che riguarda anche il nostro piccolo mondo. Rendere difficile l’esercizio di un diritto favorisce le pratiche clientelari, la ricerca di un amico o di un conoscente, al quale chiedere il favore. É la logica della protezione individuale, della tutela degli interessi del singolo, che caratterizza la formazione di un consenso su base clientelare. A questa logica si può contrapporre, con forza e determinazione, una logica di protezione generale, di tutela degli interessi di tutti, che, invece, caratterizza la formazione di un consenso su base ideale. E bisogna farlo, non solo perché è più giusto, ma anche perché è più conveniente, più vantaggioso per tutti.

Responsabilità istituzionale del Csm vuole dire comunicazione all’esterno, in un linguaggio accessibile e comprensibile, delle ragioni delle scelte del Csm, ovviamente nei casi che richiedono una comunicazione all’esterno. Oggi la comunicazione istituzionale del Csm è affidata, nei fatti, al Vice-presidente, ai presidenti delle Commissioni o ai singoli consiglieri, attraverso comunicati, dichiarazioni alla stampa, articoli, interviste. Non esistono, però, regole, né formali né informali, e anche in questo caso il piano della comunicazione istituzionale e quello della comunicazione politica tendono a confondersi.

Servirebbe un ufficio per i rapporti con l’esterno del Csm, non del Vice-presidente o del Comitato di presidenza, al quale affidare, secondo regole predefinite, la comunicazione istituzionale esterna del Csm. Poi, ovviamente, ognuno dei componenti del Csm potrà dire ciò che vuole, ma sarà comunque chiara e visibile la differenza rispetto alle comunicazioni di carattere istituzionale.

Vi è, infine, il profilo della responsabilità politica dei gruppi rappresentati al Csm, nel quale assume un ruolo determinante la comunicazione politica

Rendere conto delle ragioni delle proprie scelte non può, però, significare soltanto una cronaca, più o meno articolata, delle vicende consiliari e una illustrazione, più o meno interessante, delle posizioni del gruppo. La responsabilità politica dei rappresentanti al Csm passa anche attraverso la costruzione, nel dialogo e nel confronto con il gruppo, di regole condivise di azione e di scelta, rispetto alle quali misurare la coerenza delle singole scelte.

E soprattutto richiede un costante confronto con i territori interessati dalle scelte, con i componenti eletti nei Consigli giudiziari e con le diverse articolazioni del gruppo.

Non si tratta certo di mettere in discussione l’autonomia dei consiglieri eletti, che deve restare piena, né di pensare ad anacronistiche forme di etero-direzione delle rappresentanze consiliari da parte delle dirigenze dei gruppi, ma di creare luoghi e forme di interlocuzione e di confronto costanti, tali da assicurare la piena responsabilità delle scelte.

La creazione di una rete di dialogo e di confronto, dal basso verso l’alto e viceversa, che coinvolga il gruppo in tutte le sue articolazioni, infatti, riduce i rischi di autoreferenzialità delle rappresentanze consiliari e garantisce loro il sostegno e la solidarietà del gruppo in tutte le sue articolazioni.

In definitiva si tratta di tornare ad una idea di democrazia non come semplice delega da conferire ogni quattro anni con il voto, ma come partecipazione attiva di tutti alla vita delle istituzioni rappresentative.

Articolo pubblicato in Questione Giustizia trimestrale, n. 4 del 2017, numero monografico «L’orgoglio dell’autogoverno: una sfida possibile per i 60 anni del Csm», www.questionegiustizia.it/rivista/2017/4/il-dovere-di-rendere-conto_492.php