Voltare pagina

Quale legge elettorale per il CSM?

di Luca Imarisio
Professore associato di Diritto Costituzionale - Università di Torino
Un’analisi comparativa il cui obiettivo è valutare quale, tra le formule proposte, possa essere più rispettosa delle fondamentali priorità indicate dalla politica e dalla magistratura associata, che ne è il più diretto interlocutore in questa materia

Nello svolgere queste brevi considerazioni in ordine alle diverse ipotesi di intervento sulla legislazione elettorale per la componente togata del CSM, ringrazio gli organizzatori di questo convegno per questa opportunità di confronto: sono stato chiamato tra l’altro a confrontarmi su una delle ipotesi indicata come “proposta Imarisio”, la quale non si configura naturalmente come una organica proposta, bensì come il semplice frutto di informali riflessioni, come una ipotesi derivante da un approccio di metodo. Approccio che parte dal presupposto che vi sia, nell’elaborare riflessioni sul tema, una legittima aspettativa di ciascuna delle parti coinvolte (in primo luogo la parte politico-istituzionale ed il suo più diretto interlocutore in questa materia, ovvero la magistratura attraverso le sue rappresentanze e organizzazioni) al riconoscimento delle proprie ragioni e al rispetto delle proprie priorità essenziali: è stato del resto dato conto anche dall’Onorevole Giorgis dell’attenzione del Governo a questo profilo di metodo in apertura dai lavori di questo incontro.

In tale prospettiva, non si può non rilevare come talune delle aspettative e delle priorità appaiano coincidenti, dando luogo a premesse condivise: in primo luogo la constatazione per cui inevitabilmente la formula elettorale della componente togata del CSM non può rappresentare una formula magica, di per sé risolutiva delle problematiche della magistratura italiana, essendo un tassello di un più complesso disegno di riforma (in prospettiva storica, non può peraltro sfuggire il dato per cui i mutamenti del sistema elettorale del CSM hanno segnato altrettanti momenti di “svolta” nella più generale organizzazione della giustizia in Italia); in secondo luogo il dato per cui si tratta di eleggere un organo profondamente diverso, per natura e funzioni, dal Parlamento o comunque da un collegio di rappresentanza politica che debba esprimere un legame di fiducia ad un organo esecutivo, elemento questo che implica un diverso ordine di priorità circa le aspettative relative agli effetti attesi delle diverse formule elettorali ipotizzabili: non risulta, in particolare, prioritaria (e, per certi versi, nemmeno auspicabile) l’individuazione di un sistema elettorale che precostituisca una stabile maggioranza “di governo” e una stabile opposizione, dando luogo a dinamiche spiccatamente maggioritarie e polarizzanti; ancora largamente condivisa appare la necessità di inserire in una nuova legge elettorale norme che promuovano in modo efficace un maggiore equilibrio di genere nella composizione del CSM, consolidando ed accelerando il processo di superamento della storica sottorappresentazione del genere femminile.

Altre istanze non risultano invece così sovrapponibili e richiedono dunque di essere in qualche modo bilanciate: in particolare, per quanto qui più direttamente rileva, nella prospettiva della maggioranza governativa (in questa sede richiamata dall’Onorevole Giorgis) viene indicata come istanza fondamentale quella del superamento del meccanismo del collegio unico nazionale, individuato come uno dei più rilevanti elementi di criticità dell’attuale legge elettorale per il CSM (a questa istanza esplicita si può sovrapporre, inevitabilmente, una implicita, ma altrettanto comprensibile e legittima, istanza relativa alla necessità di intervenire in tempi brevi per “dare una risposta”, politica e normativa, anche alle contingenti vicende giudiziarie e al discredito che da esse sta derivando agli attuali meccanismi di selezione della componente togata del CSM: interpretare i bisogni ed anche l’eventuale malcontento contingente, distillandolo e convogliandolo verso una soluzione che non sia emergenziale rientra del resto inevitabilmente tra le responsabilità della politica).

Da parte della magistratura italiana si riscontrano invece, significative istanze (emerse e richiamate anche nel contesto di questo incontro) nel senso di considerare prioritario l’obiettivo della previsione di una formula elettorale che non presenti tratti eccessivamente “escludenti” e polarizzanti, che rischi di privare di espressione all’interno del CSM settori rilevanti della magistratura, falsandone e comprimendone il naturale (e positivo) pluralismo interno.

Sulla base di tali premesse, inizierei dando conto di un modello, oggi da molti riproposto e condiviso, che in realtà ha una storia abbastanza lunga, essendo stato prospettato dal Professor Silvestri già negli anni novanta del secolo scorso: l’idea è essenzialmente quella di elaborare un meccanismo elettorale che tenga insieme, da un lato, l’esigenza di mantenere un pluralismo ideale di componenti associative e di valori di cui esse sono portatrici e d’altra parte la capacità di valorizzare anche il singolo candidato, la sua personalità, senza che si disperda in una dimensione meramente aggregata. Nella prospettiva del suo autore tale modello, essendo basato su di un turno unico di votazione, eviterebbe anche le criticità in qualche modo legate a meccanismi a doppio turno, nei quali tra le due tornate scatterebbero con elevata probabilità quelle dinamiche di accordi tra cordate o peggio di scambi e compensazioni opache tra gruppi di interesse che effettivamente, tanto più in nella prospettiva di un organo quale il CSM, appare prioritario evitare.

Il meccanismo in esame prevederebbe invece la riproposizione sostanziale della formula elettorale prevista per l’elezione del Senato della Repubblica sino al 1993, ovvero un sistema uninominale proporzionale, con il territorio nazionale diviso in diciotto collegi all’interno dei quali si confronterebbero candidature individuali (quindi non di lista), ma comunque collegate ad altri candidati in altri collegi, formando così raggruppamenti di candidati collegati; il riparto dei seggi avverrebbe a livello nazionale sommando i voti complessivamente raggiunti dai candidati dei vari gruppi e poi, nell’ambito dei seggi spettanti a ciascun gruppo di candidati, sarebbero dichiarati eletti coloro che abbiano raggiunto nel proprio collegio uninominale la percentuale maggiore di voti (non il numero maggiore di voti in termini assoluti).

Questo sistema appare sicuramente caratterizzato da diversi elementi positivi, presentando degli elementi di suggestione notevoli. E tuttavia mi pare presenti anche alcune criticità: talune di carattere tecnico e non dirimenti, una di carattere più sostanziale (per quanto contingente). Tra le criticità, per così dire, tecniche si può richiamare, ad esempio, il dato per cui, pur essendo un sistema fondato su collegi uninominali, non vi sarebbe la garanzia che ogni collegio esprimerà un eletto: vi potranno essere collegi che eleggeranno un consigliere, poiché i voti in essi rusultano abbastanza concentrati, mentre in altri collegi – in cui i voti siano invece più distribuiti – potranno essere eletti due rappresentanti così come, invece, nessun rappresentante. Il possibile inconveniente sarebbe dunque che vi possano essere (secondo dinamiche difficilmente revidibili) aree territoriali sovra-rappresentate ed altre invece sotto-rappresentate (o per nulla rappresentate).

Altra criticità possibile è che, pur essendo un sistema in cui si vota un singolo candidato entro un collegio uninominale, non v’è garanzia che colui il quali risulti più votato nel collegio sarà poi eletto, essendo invece ipotizzabile che, per ragioni legate alla distribuzione dei voti nei collegi e dei seggi tra i gruppi di candidati, in alcuni collegi un certo candidato arrivi primo ma poi sia proclamato eletto chi sia arrivato secondo nel medesimo collegio: questa eventualità, a livello di legittimazione tanto dell’eletto quanto del sistema, potrebbe presentare qualche problema. Si tratta peraltro di un fenomeno che poteva accadere anche al Senato fino alla riforma elettorale del 1993: tuttavia nel contesto di una competizione basata su numeri di seggi da distribuire assai maggiori e su logiche e dinamiche politiche pienamente proporzionalistiche, tale eventualità non risultava percepita come rilevante o problematica. Al contrario, sui piccoli numeri del CSM e con la presumibile maggiore personalizzazione della competizione, tale esito potrebbe invece apparire più critico.

Una ulteriore possibile criticità appare legata al rapporto tra singoli candidati e raggruppamenti di candidature. Sotto quest’aspetto occorre partire dal condiviso presupposto per cui qualunque competizione si organizzerebbe tendenzialmente attorno a gruppi associativi, a soggetti organizzati, e non verterà pertanto prevalentemente su singole e separate individualità: tuttavia le diverse formule possono calibrare diversamente il rapporto tra singoli candidati e aggregazioni e la formula in esame comporta per le componenti organizzate un ruolo non solo centrale ma ineludibile. Un singolo candidato, magari autorevole e riconosciuto nel proprio collegio ma estraneo a dinamiche associative, non avrebbe possibilità di presentarsi alla competizione e risultare eletto, rendendo il ruolo comunque fisiologico (e complessivamente anche positivo) delle componenti aggregate una necessità inderogabile e normativamente imposta, in termini ancora più stringenti che nella vigenza dell’attuale formula elettorale.

Se queste possono apparire criticità tecniche e “relative” (ogni formula del resto presenta tra le proprie implicazioni tratti valutabili come positivi e altri come potenzialmente critici), la criticità forse più dirimente (anche se in qualche misura più contingente) è peraltro legata alla prima considerazione assunta come premessa di queste riflessioni: se l’obiettivo è immaginare una formula che rispetti le fondamentali priorità indicate dai soggetti che si stanno confrontando sul tema, e se tra le priorità espresse anche oggi dalla maggioranza politica vi è quella di superare la vigente formula elettorale riducendo la “presa” dei gruppi organizzati sulla competizione elettorale e superando in particolare il meccanismo del collegio unico nazionale, il modello descritto apparirebbe difficilmente accettabile, presupponendo al contrario come indispensabile il ruolo delle “aggregazioni” e basandosi su di un riparto di seggi tra gruppi operato a livello di collegio unico nazionale.

Riflettendo su tali dati, si potrebbe dunque immaginare un diverso strumento attraverso il quale bilanciare le istanze fondamentali già richiamate.

In particolare, si potrebbero esplorare le implicazioni dell’adozione di una formula elettorale di tipo maggioritario bi-nominale.

Il modello di seguito prospettato assume dunque come valida la premessa secondo cui per un verso non è coerente con la natura e le funzioni del CSM una formula che spinga a precostituire una “maggioranza di governo” e una stabile e cristallizzata opposizione (come le formule maggioritarie uninominali) e d’altra parte occorre evitare i rischi di spersonalizzazione e “correntismo” propri delle formule proporzionali plurinominali. Ugualmente mira ad evitare taluni possibili rischi propri dei modelli a doppio turno, che tendenzialmente spingono tra i due turni o alla formazione di espliciti “accordi di maggioranza” o ad accordi opachi e a voti di scambio. Evita, inoltre, il ricorso al voto di preferenza, ed in particolare di preferenza plurima: la preferenza multipla, anche nella forma della preferenza “di genere”, presenta infatti una grave e ineliminabile attitudine a prestarsi a dinamiche poco trasparenti di scambi e compensazioni tra gruppi e correnti. Supera poi il meccanismo del collegio unico nazionale per il riparto dei seggi e mira a consentire una libera e flessibile partecipazione all’elezione sia di candidati che si riconoscano in aggregazioni culturali o ideali, sia di eventuali candidati “indipendenti” ma stimati e radicati nel proprio territorio.

Si potrebbe dunque prospettare un sistema che preveda di accorpare a due a due i 20 collegi ipotizzati nel modello attualmente in discussione nell’ambito della maggioranza di governo: si potrebbero così ricavare 10 collegi (si veda l’ipotesi esemplificativa in calce [1]), nei quali si confronterebbero candidature individuali, con l’espressione di un’unica preferenza per uno dei candidati e l’elezione in ogni collegio dei due candidati più votati. La garanzia della promozione di un maggior equilibrio nella rappresentanza di genere potrebbe essere conseguita con la previsione di 2 seggi (riducendo dunque a 9 i collegi binominali “territoriali”) da riservare ai candidati non eletti del genere meno rappresentato che abbiano conseguito il maggior numero di voti nel proprio collegio. Non si tratterebbe, come nei maccanismi basati sulla così detta preferenza multipla di genere, di uno strumento eludibile, garantendo invece una quota di risultato. Quota che non rappresenterebbe un mero “minimo garantito” ma una quota aggiuntiva ed ulteriore che andrebbe a sommarsi ai seggi già autonomamente conseguiti nei collegi dalle candidature del genere meno rappresentato [2]. Tale misura potrebbe inoltre avere un effetto riequilibratore amplificato, stimolando nei collegi la presentazione di un numero elevato di candidature autorevoli del genere meno rappresentato (i candidati del genere meno rappresentato potrebbero infatti conseguire l’elezione non solo arrivando al primo o al secondo, ma al anche terzo posto), oltre a un ulteriore effetto riequilibratore rispetto alla differente consistenza numerica del corpo elettorale dei vari collegi: risulterebbe infatti statisticamente più probabile e più frequente che il “ripescaggio” dei candidati non eletti più votati (più votati in termini di voti assoluti, non di percentuale conseguita) avvenga nell’ambito dei collegi più grandi e con maggiore partecipazione elettorale.

Quanto ai possibili effetti del modello prospettato, in primo luogo rispetto alle garanzie di pluralismo dell’organo, si può osservare come i due candidati eletti in ciascun collegio sarebbero verosimilmente portatori di elementi di complementarità, evitando le dinamiche eccessivamente escludenti delle formule maggioritarie uninominali. Si scoraggerebbero (in quanto controproducenti) comportamenti opportunistici di “cordata” entro lo stesso collegio (potenzialmente connessi ad esempio ai modelli che si fondano sulla doppia preferenza di genere o sul doppio turno) e si limiterebbero i rischi di forti alterazioni della rappresentanza o di completa esclusione dalla rappresentanza di componenti comunque significative; non si incentiverebbe la formazione di un rapporto cristallizzato e predefinito di maggioranza/opposizione. Rispetto agli equilibri tra singoli candidati e aggregazioni organizzate, il modello attribuirebbe ai singoli candidati visibilità e responsabilità, anche nei confronti delle rispettive eventuali aree culturali, evitando i rischi di spersonalizzazione correntizia: l’elezione deriverebbe effettivamente solo dai voti conseguiti dal singolo candidato nel singolo collegio, senza influenze di accordi tra primo e secondo turno o di interferenze derivanti dal risultato di altri collegi. Si manterrebbe il potenziale e fisiologico ruolo delle aggregazioni organizzate, ma in termini non necessitati, consentendo comunque a singoli magistrati anche non aderenti ad alcuna componente organizzata o ad alcuna cordata di presentarsi alla competizione e di conseguire l’elezione se effettivamente sostenuti da un significativo seguito personale nel proprio collegio. Inoltre, l’organizzazione di macrocollegi binominali promuoverebbe una distribuzione della rappresentanza sul territorio nazionale più equilibrata rispetto al modello oggi vigente, garantendo che nessuna macroarea del paese risulti priva di rappresentanza o che vi siano aree eccessivamente sovra-rappresentate.

Una potenziale criticità potrebbe essere data dall’ampiezza piuttosto elevata dei collegi binominali ipotizzabili (si rimanda nuovamente all’ipotesi esemplificativa in calce [1]). Se, da un lato, ciò potrebbe rendere la conduzione della campagna elettorale onerosa, dovendo il candidato promuoversi su territori ampi; d’altra parte, collegi di circa 1000-1100 elettori dovrebbero garantire una competizione articolata e non basata unicamente su conoscenze e legami personali diretti, ma anche sulla promozione di idee e sensibilità alternative entro un elettorato “di opinione”.

Un altro aspetto, e con ciò mi avvio a conclusione, è che il modello che è qui delineato – e offerto quale contributo al dibattito – garantirebbe un’ampia legittimazione degli eletti, comunemente carente nei sistemi maggioritari: qualunque formula elettorale maggioritaria uninominale e, in qualche misura, anche la formula del voto singolo trasferibile, determina un’assemblea eletta in cui una parte significativa degli elettori non ritrova un rappresentante che abbia ricevuto il proprio voto.

Questo meccanismo, al contrario, garantirebbe che verosimilmente un’ampia maggioranza dell’elettorato (salvo frammentazioni estreme) si troverà rappresentato in CSM da un consigliere a favore del quale avrà espresso il proprio voto (che sia esso giunto primo o secondo nel proprio collegio).

Ed accanto al tema della legittimazione nei confronti dell’opinione pubblica, anche il tema della legittimazione nei confronti degli appartenenti alla magistratura non appare un dato trascurabile nel contesto del dibattito in corso.

Intervento al convegno “Voltare pagina. La riforma del sistema elettorale del CSM”

Roma, 23 giugno 2020

 

[1] A titolo meramente esemplificativo, quale ipotesi di aggregazione delle regioni italiane in 9 circoscrizioni di dimensioni sufficientemente omogenee, si potrebbero ipotizzare i seguenti collegi binominali:

  1. Torino 590 + Genova 316 + Cagliari 159 + Sassari 106 = 1171 elettori;
  2. Milano 874 + Brescia 292 = 1166 elettori;
  3. Bologna 476 +Venezia 460 + Trento 71 + Trieste 178 + Bolzano 71 = 1256 elettori;
  4. Firenze 462 + Ancona 185 + Perugia 132 + Aquila 189 + Campobasso 66 = 1034 elettori;
  5. Roma = 981 elettori;
  6. Napoli 1108 + Salerno 218 = 1326 elettori;
  7. Bari 360 + Catanzaro 337 + Lecce 177 + Potenza 104 + Reggio Calabria 225 + Taranto 105 = 1308 elettori;
  8. Caltanissetta 130 + Catania 349 + Messina 160 + Palermo 465 = 1104 elettori;
  9. Roma Giurisdizione nazionale 600 + fuori ruolo 215 = 815 elettori.

[2] Esemplificando, nell’attuale CSM le elette di sesso femminile sono 6, ovvero il 37.5% dei 16 componenti elettivi. Rapportato tale dato agli ipotizzati 20 componenti del “nuovo” CSM si potrebbero presumere almeno 7 consigliere elette direttamente. Aggiungendo i due seggi riservati al genere meno rappresentato si arriverebbe a 9 elette su 20, ovvero una quota del 45%.